Higuain, rap-choc: quel limite estremo che non va superato

Higuain, rap-choc: quel limite estremo che non va superato
di Anna Trieste
Mercoledì 12 Ottobre 2016, 09:12
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Sta facendo scalpore in queste ore l'ultimo pezzo di Enzo Dong, rapper napoletano ora anche attore nella serie tv Gomorra che nel brano appena pubblicato lancia i suoi strali contro Vacchi, Corona e Higuain. Ma andiamo con ordine. Quali sono le parole che hanno creato tanto scompiglio? Sicuramente non quelle del verso «È meglio una squadra dove sto solo io che una squadra con quella lota di Higuain». Sì perché fin qui, al di là della condivisione dell'epiteto volgare che comunque è una parolaccia napoletana, la prima imparata persino da Marek Hamsik su indicazione di Lorenzo Insigne, si potrebbe pure convenire vista la facilità con cui l'argentino cambia partner dopo aver giurato amore e dedizione a quello precedente. È sul refrain che nasce qualche perplessità. «Mi diverto solo se a morire è un Higuain». Ecco, è qui che si sono giustamente levati gli scudi, e non solo quelli bianconeri.

Questa frase, infatti, sebbene da un lato dimostri il processo di antonomasia o, come dicono nel marketing, il processo di volgarizzazione del marchio in corso a Napoli per cui, così come per indicare un fazzolettino di carta si dice «Scottex» allo stesso modo ormai per indicare un traditore senza cuore si dice «Higuain», dall'altro presta il fianco a derive che chi ama il pallone e per esso pure straparla e jastemma, non può non considerare pericolose. È chiaro che il rapper non si augura che a morire sia proprio Higuain ma è altrettanto chiaro che, visto il momento storico e visto il recente infortunio di Arek Milik, se nella frase avesse detto, chessò, «Mi diverto se a morire è un Bruto» l'intera faccenda avrebbe preso una piega diversa. In primis perché Higuain ha meno capelli di Bruto e in secundis perché a differenza del traditore di Cesare Gonzalone è ancora in vita e lo dimostra ampiamente tutte le domeniche con la maglia, ahinoi, della Juve.

Ecco, forse è arrivato il momento di mettere un punto a questa faccenda e di andare avanti. Noi per la nostra strada, lui per la sua. E forse è arrivato pure il momento per fare una chiara e netta distinzione tra lo sfottò, sia pure perfido e volgare e per così dire «da stadio» e altro che tutto questo non è. Perché qui nessuno quand'è al San Paolo davanti a un gol dell'avversario dice a quello seduto affianco «Per Ercole! Auguro a costui tutte le fortune del mondo e pure una notevole quantità di figli maschi». È chiaro che in trance agonistica se ne dicono di cotte e di crude e quando la rivalità con una squadra è particolarmente accesa si superano spesso i limiti della decenza e pure della creanza. Ma esistono dei limiti oltre i quali è pericoloso andare. E quei limiti sono rappresentati giustappunto dalla morte. E del resto è la ragione per cui i napoletani si incazzano quando ogni domenica, in qualche stadio italiano, qualcuno augura a loro e alla città tutta di morire tra atroci sofferenze scamazzati da ceneri e lapilli del Vesuvio. Va bene tutto, vanno bene le male parole, va bene la cazzimma. Ma la morte, no. Con la morte non si pazzèa!
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