Io, tottiano di ferro sto con Spalletti:
prima la squadra

Io, tottiano di ferro sto con Spalletti: prima la squadra
di Francesco de Core
Martedì 27 Settembre 2016, 18:53
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 Essere tottiani vuol dire sentirsi partecipi di una categoria dello spirito. Lo è in generale anche l’essere romanisti, con quello che comporta predisporre il proprio corpo a una sequenza tachicardica mitigata da rari guizzi di gioia (extrasistolica, ça va sans dire). Ma il tottianesimo è pure un concetto filosofico - senza che ciò risulti irriverente ai seguaci di Platone e Nietzsche. 

Dà una suggestione identitaria che solo calciatori che andavano oltre, Rivera e Maradona sugli altri, sapevano infondere. La Roma è Totti, Totti è la Roma: l’equazione è ormai acclarata, dopo 25 anni di sublimi giocate (ma poche vittorie). Totti è il calcio, il calcio è Totti: anche qui siamo nel perimetro delle banalità, non è necessario possedere i geni giallorossi per ammetterlo. Se c’è Totti seduto in panchina l’Olimpico dorme, se Totti si alza per sgranchirsi le gambe lo stadio si accende come un bengala. Totti è anche qualcosa in più: è simpatico e ironico (ha firmato libri di barzellette), ama la famiglia e i bambini (ne ha tre), non dà adito a gossip, ha corteggiato la futura moglie con una maglia celebrativa nel derby - “6 unica” - che ha fatto sospirare le adoranti romaniste (e non); è testimonial dell’Unicef e fa beneficenza vera, non farlocca. Tutto è bene quel che finisce bene? No, magari. Per un dato crudo nella sua oggettività: l’età di Totti, che oggi di anni ne fa 40. E dunque siamo ai titoli di coda. Entusiasmanti, sorprendenti, naturalmente dolorosi, che nulla tolgono alla immensità dell’ultima bandiera in un calcio di ragionieri e procuratori, di traditori e pusillanimi.

Tutto sta, però, a capire quando è il momento di far calare il sipario. Senza immiserirlo, sporcarlo o svilirlo. Ci sta riuscendo Totti? Sul campo sì, divertendosi a sorprendere persino se stesso, con le giocate del genio bambino che dimorerà sempre dentro di lui; fuori, invece, qualche dubbio è lecito sollevarlo. L’improvvida intervista a Raisport del febbraio scorso che ha causato la prima, plateale rottura con Spalletti e le parole di Ilary alla Gazzetta di ieri, scagliate come pietre contro allenatore e presidente, sembrano più dichiarazioni di guerra che legittimo esercizio di quella leadership che a Totti è stata chiesta tra le sacre mura dello spogliatoio. E il rattoppo notturno del capitano sulla «sintonia totale» è una mano tesa che, però, realisticamente sanerà ben poco.

Cui prodest? Non a Totti, che rischia di offuscare sul traguardo la sua straordinaria carriera con veleni di cui la volubile Roma, già per sue colpe vittima di sbalzi umorali, farebbe volentieri a meno; non a Spalletti, crollato oltremodo nell’audience della vulcanica piazza (radiofonicamente esacerbata e talvolta brutale, come una famiglia infelice di Tolstoj) e non esente da responsabilità nella gestione complessiva della squadra; non alla società, metà americana e metà no, un minotauro che sembra guardare troppo lontano (al nuovo stadio) per rendersi conto di quanto le sta accadendo quotidianamente sotto gli occhi; infine non ai tifosi, spaccati e avvelenati, obbligati dagli eventi a scegliere tra Repubblica (spallettiana) e Monarchia (tottiana), mentre la Roma si sbriciola nelle sue incertezze. Totti e Spalletti come i duellanti conradiani d’Hubert e Feraud, che hanno prolungato il loro astio mentre la Storia, inesorabilmente, voltava pagina cancellando il senso delle parabole e delle miserie individuali.

Auguri, capitano.
Quarant’anni vissuti così sono una favola, la Grande Bellezza del pallone. Ma faccia lui un regalo alla squadra e alla città che ha giurato di non lasciare mai con un infinito atto d’amore: sia leader vero, profondo anche di parole e di sguardi, non solo un geniale creatore di parabole e gol; diventi un esempio in grado di unire, non di dividere, un catalizzatore di energie positive, non di rancori e ripicche; faccia in modo che la Roma, domani, non si senta orfana del campione ma erediti la forza, la passione, il coraggio del capitano. Capitano per sempre, come lo fu Di Bartolomei, l’impenetrabile Ago, non solo un numero dieci divino di piede e di estro. Il confine tra simbolo e fuoriclasse è tutto qui. Magari, nel ricordarlo a se stesso, Totti lo spieghi anche alla moglie.
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