L’infinita leggenda di Capitan Totti
il «diez» che ha stregato Maradona

L’infinita leggenda di Capitan Totti il «diez» che ha stregato Maradona
di ​Francesco de Core
Domenica 28 Maggio 2017, 12:10
9 Minuti di Lettura
Si potrebbero prendere i numeri, freddi come stelle lontane, lanciarli in aria come coriandoli e fare in modo che il vento li disperda nella notte del ricordo e della nostalgia; si potrebbero collezionare spezzoni di film che sono parti giocose di una vita, la sua e la nostra, e attaccarli al nostro album per dargli colore; si potrebbero recuperare sorrisi, e grida, imprecazioni, esultanze, i sentimenti in ogni sfumatura, dolce o avversa, perché oggi si traccia una linea, si riavvolge il nastro del sogno. E si potrebbe prendere una città sola, eterna di una eternità che spesso appare incomprensibile oltre le pietre e le preghiere, le colonne e gli altari, e oltre la sua luce rosata che voluttuosa evapora nel pigro ponentino, e cucirla addosso a lui, a Francesco Totti, 41 anni a settembre, romano di Porta Metronia, il Capitano, un catalogo di gol che pochi altri hanno collezionato nella storia, per farla breve calcio in purezza nella sua massima espressione. Nato, cresciuto, vissuto per una squadra sola e dentro una squadra sola, la Roma, mai tradita, mai ingannata, mai schiaffeggiata, solo un pensiero stupendo, il Real Madrid, finito nel bagaglio di quello che poteva essere e non è stato; due i colori incollati dentro, il giallo e il rosso, una fede oltre che una passione, un solo cuore che batte. Oggi l’ultimo atto, contro il Genoa, stadio Olimpico, ore 18, e il 28 marzo del ‘93, ventiquattro anni fa, pare appena ieri, quando un ragazzetto, biondo e sfrontato, toccava terra e palla nella coda di un vincente Brescia-Roma, allenatore Vujadin Boskov, uno che di talenti se ne intendeva.

C’è dunque la cronaca, pagine scritte a matita in questi giorni, in questo anno difficile, di poche parole ufficiali - e quelle poche lanciate nel burrascoso etere giallorosso come lame taglienti - e di molti silenzi, molti dissapori, molti gesti abbozzati, molti sguardi interpretati, nel calderone di una sterile, bassa letteratura fatta di chiacchiericci e veleni, di capataz e di improvvisati esegeti di un pensiero che si è fatto inevitabilmente cupo, lancinante. Ma questa coda scivolosa che in un mondo perfetto si sarebbe evitata - ciascuno con una quota di responsabilità - era forse persino necessaria per la elaborazione di un lutto che dentro le mura durerà ancora per molto, perché Roma è una città di troppa storia e troppi spifferi, e non ci sono più gli Alberto Sordi e gli Aldo Fabrizi - figuriamoci i Belli e i Trilussa - a stemperare le parabole della quotidianità con ironia e garbo, quelli sì di una Roma ormai rifugiatasi nel bianco e nero. Oggi in città governano le radio h 24, la monnezza, i motorini, le buche e i gabbiani (in assenza - si spera - di mafia capitale), in una tristezza da fine impero dove pure i gladiatori sono pacchianamente finti, una parodia della gloria che fu. Il gladiatore vero si muove dentro i versi di Fernando Acitelli: Visto che il Sepolcro degli Scipioni / da casa tua, Totti, è questione di metri, / inginocchiarsi lì prima d’una sfida / significa cercare la protezione degli dèi, / sentirsi un semidio già prima / che l’altoparlante annunci /la formazione.

Totti ha steso oltre l’immaginabile, oltre il possibile, l’arco della carriera, straordinaria nella sua anomalia, una squadra quasi mai vincente, pochi tituli - per citare il pragmatismo di Mourinho - e molte magie, i cucchiai irriventi nei pomeriggi di primavera o in serate nebbiose, i tiri al volo come curve prodigiose disegnate da un Caravaggio o da un computer, le traiettorie inattese come lampi d’estate, i dribbling secchi, gli sberleffi trasteverini, gli sfottò pungenti (laziali e juventini i più bersagliati), le zuffe e le sottomaglie, i selfie e le dediche, le purghe i ciucci e i pollici verso, la pubblicità (tanta e ben reclamizzata) e la beneficenza (tanta e mai reclamizzata), le barzellette Papertotti e le rare interviste, la quieta famiglia d’origine e quella costruita con moglie showgirl e tre figli biondi e belli come il sole. E, soprattutto, il dolore di due infortuni gravi, uno dei quali, terribile, ha stordito di un muto dolore l’intero Olimpico – Roma-Empoli 1-0, gol di Perrotta, stagione delle dieci vittorie consecutive spallettiane, anno domini 2006 - ma non Francesco e il cittì azzurro Lippi, perché certe storie hanno pure un finale inatteso, e la purificazione è arrivata non nella battaglia di Berlino, non nella notte da ubriachi di gloria del Circo Massimo con la coppa tra le mani e il tricolore a fasciare la testa, ma sul dischetto di Italia-Australia, il rigore che nessuno avrebbe voluto tirare e che lui ha calciato a partita impacchettata sul pari, ché ancora rimbombano in cielo i dieci Totti urlati in tv da Fabio Caressa. 
Alfonso Gatto lo avrebbe adorato, lui che venerava Gianni Rivera come uno dei suoi versi abitabili e immaginifici; Beppe Viola avrebbe ironizzato sulla romanità così esplicita ma sapendone cogliere l’attimo creativo, il guizzo del genio; Giovanni Arpino ne avrebbe fatto personaggio da epopea, un Domingo con più classe (e magari più indolenza); Gianni Brera l’avrebbe digerito - non amato - con le sue strepitose torsioni linguistiche; Pier Paolo Pasolini ne avrebbe esaltato l’estro popolare, da ragazzo di borgata ma non borgataro, anche se il sogno del pupone era quello di fare il benzinaio «perché mi piaceva l’odore».

C’è però che Totti, del numero dieci secondo canoni estetici e tattici tradizionali, ha rappresentato una compiuta evoluzione, un’improvvisa accelerazione da playstation, più nel solco di Cruyff che di Baggio, totale nella immensità del tocco e nella copertura del campo, presenza più che guizzo, forza piede e occhio, una modernità che tiene insieme poesia e prosa, leggerezza e potenza, istinto e calcolo, lucide costruzioni geometriche alla Calvino e capacità espressiva alla Volponi.

Ha avuto tanti tecnici, Totti, che a modo loro nel sentirsi gratificati dalla sua classe hanno dovuto amarlo per forza, alcuni sentendosi persino prigionieri, asfissiati da un’ombra così lunga, pesante. Lui dice di non aver mai licenziato allenatori, lo avrebbe fatto - se avesse potuto - solo con il gaucho argentino Carlos Bianchi, pronuncia Bianci, che brocco non era ma che nel raccordo anulare risulterà con disdoro imperituro, un po’ come il martellatore della Pietà michelangiolesca, l’autore dello scempio miracolosamente sventato, ossia il prestito del giovane Francesco alla Sampdoria, anno domini 1996. A opporsi fu Franco Sensi, che lo ha trattato come il figlio maschio mai avuto, e che non tentennò neppure di fronte ai soldi e alle lusinghe di Massimo Moratti, uno poco abituato a farsi dire di no.
Umanamente (e tatticamente) variegato, il catalogo dei suoi allenatori è questo: Zeman e Mazzone - pur così diversi - sono stati i prediletti per loro disposizione caratteriale, padri comprensivi prima che maestri sul campo; Capello, il duro bisiaco, con Totti ha raccolto uno scudetto storico, anno domini 2001, e acuti rimpianti; Ranieri il testaccino è volato con lui sopra i tetti capitolini per poi schiantarsi nel tritovagliatore di Trigoria; Luis Enrique, dal Nostro detto Zichichi, ha provato ad applicare il concetto di democrazia diretta alla monarchia tottiana prima di arrendersi e tornarsene nella patria catalana per vincere tutto; Garcia si è spento come un cero, avendo rimesso la chiesa al centro del villaggio, senza però portare a sufficienza acqua e vino alla celebrazione del cardinal Francesco; infine Spalletti, che gli ha spalancato l’autostrada del gol nell’epoca delle messi d’oro mai legandosi a lui, mal tollerando una regalità (talvolta timidamente) esibita fino all’ultima rottura, plateale, catastrofica, puro autolesionismo giallorosso. 

Francesco De Gregori - principe di tifo romanista - lo aveva capito, Nino/Checco non avrebbe mai avuto paura di tirare un rigore, anche se la maglia non sarebbe stata la sette ma quella con il numero pieno, il numero perfetto, il dieci, come la lode che Totti si appenderà da laureato del pallone, tra pochi eletti, avendo lasciato per strada compagni d’orchestra che però hanno dilapidato talento e amicizia, primo fra gli altri, inarrivabile, Antonio Cassano. Ha fatto parlare di sé, Totti, più di quanto lui, introverso e persino impacciato, avrebbe voluto. Ai rotocalchi ha concesso pochi flirt da scapolo e molta tenerezza da sposato. Con Ilary fu amore a prima vista, e il «6 unica» della maglietta di un derby vinto ha fatto entrare il festante popolo giallorosso da trionfatore nel recinto della sua privacy, come in una famiglia allargata alla città. Di loro due, del ménage, dei tre figli, del burraco, dei pigiamoni e dei rigatoni (sedici, non uno di più), però sappiamo il giusto, perché il gossip è possibile governarlo entro il perimetro del buon gusto. Basta il campo, direbbe Totti. Anche quando lì dentro succede l’imprevedibile, come lo sputo a quel vigliacchetto del danese Poulsen, Europei 2004, che ai moralisti di penna facile non piacque affatto (ma a chi potrebbe piacere un gesto vile pur istintivo?) e che scatenò una tempesta di antitottismo pari alla indignazione per mani pulite. Francesco/Rugantino per primo chiese scusa a belli e brutti, buoni e cattivi (dirà poi candidamente: «Se uno mi sputa, rispondo con un cazzotto. Lo sputo è il gesto peggiore che esista»), pur trovando dalla sua parte nientemeno che Oriana Fallaci («Caro Totti, io gli avrei tirato un cazzotto nei denti e una ginocchiata non le dico dove») e Jorge Valdano, ossia due fuoriclasse, della penna e del pallone. Ottima compagnia. Stessa esecrazione per un calcio rifilato all’intemperante e guappesco Mario Balotelli, finale di Coppa Italia 2010, rosso diretto e bacchettata del capo dello Stato. Una sola considerazione a margine: Totti è rimasto, Balotelli è tramontato. In compenso, ha fatto impazzire gli inglesi a 38 anni e tre giorni (Totti, non Balotelli): dopo lo scavetto ad Hurt, settembre 2014, in City-Roma 1-1, il gol più anziano (o meglio: meno giovane) della Champions, i tabloid non sapevano più come chiamarlo, leggenda, maestro, eterno, gladiatore, persino vintage Totti. Nulla gli è stato precluso, perché non sempre i trofei vinti fanno il campione, c’è dell’altro se il calcio vuole ancora custodire una patina di romanticismo (che non è una brutta parola). La Grande Bellezza è (e resterà) anche la sua, di voluttuosa ispirazione romanocentrica, perché il mito ha il suo peso specifico - e non è un caso che in una inquadratura di Sorrentino appaia la pagina di un giornale con il titolo «Allarme per Totti». 

Un film da Oscar - verrebbe da dire americano, se non fosse che gli americani, a Roma e nella Roma, ci sono e non paiono aver gestito la faccenda al meglio - avrebbe richiesto un finale impeccabile, e questi giorni di incomprensioni, occhiate trasversali, buongiorno e buonasera, bizantini giochi di parole aggiungono nella piazza depressa una dose di rabbia alla saudade per un addio non ancora metabolizzato. Forse sia Spalletti che Totti - ciascuno, per carità, con le sue ragioni - avrebbero dovuto dar retta a Oscar Wilde, per il quale «bisogna sempre perdonare i propri nemici, niente li infastidisce di più». Ma sarebbe stato chiedere troppo: a chi gestisce una squadra, non un uomo solo; e a chi non riesce, umanamente, a sopportare la crudeltà del tempo che passa. La storia di Totti - oltre l’ultima domenica - vivrà comunque in uno luminoso, eterno presente. E allora, se proprio il sipario deve calare, conviene affidarci alla saggezza (una volta tanto) di Diego Maradona, el diez: «Francesco è e sarà il miglior giocatore che abbia visto in vita mia».
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