Maradona, il trionfo di Tre volte 10
«A Napoli sono stato felicissimo»

Maradona, il trionfo di Tre volte 10 «A Napoli sono stato felicissimo»
di Pietro Treccagnoli
Martedì 17 Gennaio 2017, 11:37
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Diego Armando Maradona è il napoletano smisurato, distillato nella sua essenza più naturale. Genio e sregolatezza, come Caravaggio, Lazzaro e il puer angelicus. Al di là del bene e del male. Per tutta la serata, tra gli ori borbonici e su un palcoscenico che fa battere il corazòn a chi vi sale e a chi lo guarda, attorno Diego il campione, Diego lo scugnizzo, Diego l'eroe senza età, è andata in scena una messa laica fatta di musica e calcio, di giornalismo e cinema con spettatori con la sciarpa da curva B legata alla fronte. Persino Gomorra ha messo l'abito buono e ha giocato autoironicamente con sé stessa. 
 


Diego è stato il tenore del calcio, prima ancora che il D10s azzurro e argentino venuto dalla fine del mondo per scatenare la fine del mondo al San Paolo. Ieri la fine del mondo era sul palcoscenico del teatro più bello del mondo. San Carlo come San Paolo, due santi per un'unica divinità. Ci sta e c'era. Una grande rimpatriata, spettacolo nello spettacolo, con ritmi da talk show. Estremismo pop, contaminazione, e che volete farci? Ci sta pure questo. Perché davanti agli occhi incantati della platea, dei palchi e del loggione non è andata in scena solo un'interminabile storia d'amore, ma l'Opera in azzurro. Un uomo, un piccolo grande uomo, esaltato e affaticato, felice e commosso che ha scritto una nuova pagina della sua lunga traversata oceanica, esaltante e dissoluta, con il suo popolo, che si è confessato in pubblico, in una lunga chiacchierata con Gianni Minà. Ed è stato forse l'attimo più commovente della serata, perché condotta senza i veli della spettacolarizzazione necessariamente coreografica. È stata anche l'occasione per lanciare messaggi forti: «Dico ai ragazzi, non prendete la droga, non sparate. Vincete come ho vinto io. So che Napoli ce la farà» e poi «qui mi sento a casa. Io non tradisco». Ma le parole arrivano con il «the end» con la grande riconciliazione con figlio Diego jr, in platea: «Dopo trent'anni devo chiederti scusa». È c'è l'abbraccio liberatorio. Sangue e anima, quindi orgoglio (comune) e pregiudizio (altrui).

S'è rinnovata la sintonia tra un campione, calciatore talvolta preso a calci dalla vita, e il mondo racchiuso in un'esplosiva sfera di cuoio. Diego c'era, c'è e ci sarà, perché Diego è. E l'attesa di vederlo palleggiare con la nostra memoria, con la potenza di un sentimento che ha un solo colore, è stata riempita da musica, parole e video. Prima che si materializzasse per «Maradona Live - Tre volte 10», lo spettacolo costruito da Alessandro Siani, non potevano che esserci le note dell'«Inno alla gioia» di Beethoven, suonato dai ragazzi del Sanità Ensemble, per una sera padrone assoluto del golfo mistico; poi dall'orazione iperbolica di Peppe Lanzetta («'O re è turnato» che ha trasformato l'arrivo in una festa di popolo e stadio, aristocrazia e vicoli di una città sudamericana) e quindi il doppio annuncio video pronunciato da Alex Del Piero, un «signore e signori ecco a voi Diego Armando Maradona», corretto a distanza da Francesco Totti: Diego Maradona, anzi il Calcio, con la «c» maiuscola che non s'è vista, ma s'è sentita. Maradona ha scherzato con le sagome di Michel Platini e di Sepp Blatter, seduto su un trono trasparente con una corona incisa sulla spalliera, dove resterà per quasi tutto lo show. Ha ascolta Gigi Savoia rievocare Eduardo. Ed eccolo calciare, il re senza corona, ma padrone del cuore di chi ha sentito il sangue squagliare nelle vene per ogni sua finta, di chi ha intonato il ritornello di tutti quelli che lo hanno visto e non riuscivano a contare i battiti del proprio cuore. Il cuore, ieri sera, è battuto all'unisono. Lo si è sentito forte, dopo il buonasera papale. Una fitta e un acuto, un infinito do di petto, quando ha proclamato che non ha tradito perché «sono stato felicissimo a Napoli». Le prime parole del Dio del passaggio fatale, i suoi primi gesti, i suoi passi nervosi non sapevano nascondere la naturale tensione. Ritrovarsi per non dirsi mai più addio, ché poi mai questa sua Napoli, facile all'idolatria, mai gliel'ha detto un addio e mai avrebbe potuto dirglielo. Diego ha scherzato anche sul prezzo del biglietto: «Costa 300 euro perché mi avevano detto che Pelé faceva uno spettacolo per 200 euro. Lui deve arrivare sempre secondo». Durante il monologo d'esordio è entrato in scena anche il massaggiatore Salvatore Carmando. Dopo saliranno sul palco anche alcuni compagni della grande avventura dei due scudetti. Quando, invece, ha parlato della famiglia, la voce si è incrinata fino alle lacrime. Poi, di scena in scena, ogni passaggio è scivolato via facile, come una finale fitta di reti.

Non c'era ghiaccio da sciogliere, alla faccia del freddo che attanaglia da giorni e giorni la città. Al San Carlo e oltre il San Carlo brillava il sole con una corona di artisti ad allestire la cantata dei giorni pari, una stagione non solo calcistica, ma cittadina, stracittadina, che tutti, tifosi malati e tifosi tiepidi, sognano di poter rivivere. La musica ha avuto il proprio spazio. Si era o no nel tempio della musica? Soprattutto musica leggera e ultracontemporanea, certo, melodia e rap, con Lina Sastri e Clementino a far ballare el Pibe al ritmo del freestyle e con «Napule è» a svettare, a celebrare quel 10 maggio del 1987 scolpito negli annali e nelle pietre di Napoli, di una Napoli finalmente campione. Lo spettacolo, con i ritmi del cuore, con la regia minimal di Siani, ha avuto palloni e palleggi in forma di danza, una scenografia essenziale allargata dalle immagini che la nostalgia canaglia colorava di tutti gli azzurri del mondo e quelle del colore più napoletano che esista sulla tavolozza dei sentimenti. E ancora, poi, le parole di Maurizio de Giovanni, il più bastardamente azzurro tra gli scrittori italiani che ha sfogliato con Diego l'album della figurine di un'epopea meridionale. Maradona non si è tirato indietro davanti a nulla, entusiasta per una festa come un bambino al Luna Park.

È stato questo lo spirito che l'ha reso grande: rimanere sempre e solo un bambino con il pallone. A volte è stato disperato, impaurito, braccato ed è precipitato in gorghi avvolgenti. Ma cadeva e si rialzava. Era il lato oscuro della luna, della sua luna che incrociava le ombre nere di Napoli. Ma ieri con il male, con Gomorra si è saputo persino a scherzare, assieme a Salvatore Esposito, il Genny Savastano della serie tv, che ha esorcizzato la livida narrazione delle periferia. Capovolta poi pure dalla presenza del Pm antimafia Catello Maresca, sul palco da supertifoso. Quando, nella prima parte dello spettacolo, era scoccata l'ora del dialogo, con l'amico Minà, il Pibe de Oro, la mano del Dios e il sinistro dell'Olimpo, con la voce e la parlata che hanno contribuito a farne il personaggio che ha sovrastato la persona, ha tirato fuori del cascione aneddoti e ricordi, giocate mirabolanti, la fede persa e ritrovata grazie al pontefice che chiama «Franceschito» («Il Papa è argentino, ora siamo in due»), i suoi errori e l'amicizia con Fidel e Chavez e la diffidenza per Trump. Magie e terzomondismo seguiti e accompagnati da immagini e filmati che si materializzavano davanti agli occhi come l'eco infinita dei quei giorni in cui all'improvviso un popolo intero, i napoletani in Patria e quelli della diaspora, si unirono in un solo coro, quello della vittoria. Napoli in paradiso con il proprio idolo. Santa Maradona, per sempre.
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