Maradona, tifosi in delirio a Napoli
«Felice di essere tornato a casa»

Maradona, tifosi in delirio a Napoli «Felice di essere tornato a casa»
di Pietro Treccagnoli
Domenica 15 Gennaio 2017, 13:34 - Ultimo agg. 22:09
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Diego non gioca più ma resta sempre Diego. Maradona e abbiamo detto tutto. Napoli brilla a intermittenza, come l'albero di un Natale che non vuole passare, ma ha spento molte delle luci che facevano brillare la stella del Pibe de Oro, venuto dalla fine del mondo, prima del Papa (absit iniuria), a miracol mostrare. Miracolo pallonaro, ma pur sempre miracolo che, quando non si affida al piede dell'uomo, sfrutta la mano di D10s. Dai rutilanti anni Ottanta, da quella pedata che sfidò il cielo, nel luglio 1984 in un San Paolo delirante a priori, alla primavera del 1991 che lo vide fuggire sconfitto di notte, tanti sancta sanctorum di Maradona, pubblici e privati, sono cambiati o sono spariti. Ventisei anni non sono una bazzecola. Hanno resistito di più le tracce della memoria, i palpiti del cuore, l'ansia per un sogno che ancora non si ripete. Da Posillipo a Soccavo, da Fuorigrotta ai Decumani, la ragnatela qua e là perde i fili. Centri sportivi, la casa, gli alberghi, i ristoranti, le strade percorse con la Ferrari, di notte (la notte era il suo liquido amniotico) quando la città non lo agguantava con un amore stordente, con la frenesia per un riscatto che avrebbe profumato di felicità. La lunga ombra del passato si è distesa sul presente con murales rigenerati, altarini profani, centinaia di foto che ripropongono le mirabolanti gesta, come in teatro di paladini e sarracini.

Lo stadio, certo, il San Paolo, ma pure, all'estremo opposto della sua vita spericolata (altro che Blasco o Steve McQueen), Forcella con gli scatti di frequentazioni borderline. In mezzo e attorno, un itinerario con tappe capaci di tenere insieme quartieri alti e periferia, la bellezza e l'inferno, la luce e il vicolo. Ebbene, se partite dal Centro Paradiso (tanto nomine), in fondo a Soccavo, tra palazzine, orti e auto in perenne sosta, dove il Napoli si allenava, troverete un rudere chiuso dietro un cancello azzurro con una scritta eloquente: «Acab Fuck». I tempi cambiano, magari si incarogniscono e quel campo dove si preparavano vittorie e scudetti è da tempo un rudere, pura archeologia sportiva. Il calcio è del popolo, recita un adesivo recente attaccato al portone. Miele per le orecchie del popolo del calcio. Un'altra tappa è al Virgilio, centro sportivo di Gianni Improta, ex-azzurro. Qui Diego andava a tirare calci come un bambino. È a via Lucrezio Caro e rimane ancora un vessillo dell'era maradoniana.
La città è piena di icone del santo laico al quale si sognava di poter baciare il piede, sinistro ovvio: è l'arte del calcio nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Fino a una decina di anni fa impazzavano, poi il tempo ne ha fatto intaccare qualche reliquia. Ma è solo vernice che si sgretola, il palinsesto dei sentimenti è intatto. Hanno chiuso dei luoghi dove Diego passava le notti brave e quelle galanti. Non c'è più La Sacrestia a via Orazio e nemmeno La Stangata a via Martucci, giù a Chiaia. Dove impazzava Il Sarago della convivialità azzurre, a piazza Sannazaro, adesso ci si mette in fila per la pizzeria 50 Kalò. Ora i ricordi imbanditi li custodisce e li apparecchia Ciro Fummo di Ciro a Mergellina. «È venuto qui tante volte e per molti anni» racconta. Con tutta la famiglia, ovviamente? «Spesso. Ed era un'adunata che cominciava dal 17 e arrivava al 20» spiega indicando quattro tavoli ora divisi, tra la cassa e il bancone. Gli piaceva la cucina napoletana? Cosa preferiva? «Mangiava tutto» sorride. «Anzi tutti mangiavano tutto e con abbondanza. Gli altri clienti in sala andavano in estasi. Foto, autografi, mentre i bambini della famiglia si rincorrevano tra i tavoli. Ero amico di tutta la squadra. Il tecnico Ottavio Bianchi il giovedì mi invitava a giocare qualche partitella di allenamento a Soccavo, con loro. Che tempi».

Risalendo a Posillipo, dalla parte che affaccia su Mergellina si arriva alla casa dove Diego ha abitato: una palazzina su due piani a via Scipione Capece. Al primo viveva Ciro Ferrara (ora troverete il padre del calciatore), sopra, in due appartamenti riuniti che coprivano tutto il livello, era accampato Diego con la famiglia allargata, un'allegra e numerosa brigata, dove i parenti si mescolavano agli amici, grazie alla grande ospitalità del campione argentino. Adesso, la casa è occupata dai proprietari. Non conserva memorie concrete degli anni del Pibe, del suo oro, forse qualche eco la percorre con il sibilo del pallone calciato per un'imprendibile punizione. Ma c'era un altro Paradiso, oltre il campo di Soccavo, che ha visto tra le proprie mura prodezze sebbene di genere differente da quelle da stadio. È l'hotel Paradiso, appunto, a via Catullo, qui, narrano le cronache, il gossip e la leggenda, Maradona amava intrattenersi, omaggiando inconsapevolmente il poeta latino, con le sue Lesbie: dammi mille baci e dopo cento e dopo altri mille. E non erano solo baci. Camerieri e receptionisti con diversi decenni di attività alle spalle conoscono aneddoti e segreti, ormai ben poco segreti, perché hanno fatto il giro del campo e il giro del mondo.

Se si scende da Posillipo, buen retiro e base di partenza per le incursioni lontano dalla pazza folla, Maradona è più vivo e presente. Sebbene in effigie. La popolarità lo faceva marcare a uomo dai napoletani. Non poteva uscire dai luoghi protetti. Si può essere schiacciati dall'affetto eccessivo. Dopo il primo scudetto, nel maggio brillante del 1987, Diego fu praticamente ostaggio del tifo. Preda e predatore contemporaneamente, sebbene i trucchi per sfuggire agli agguati e alle paparazzate li conoscesse e li sperimentasse con astuzia. Chi gira tra i Quartieri Spagnoli e Spaccanapoli ha l'imbarazzo della scelta tra il murales e il capello. Il primo è sulla facciata di un palazzo di via De Deo. Fu realizzato da Mario Filardi dopo il secondo scudetto. Il tempo gli aveva aperto una finestrella sul volto e aveva reso opachi i colori. Un anno fa, con una colletta ispirata da Salvatore Iodice, è stato restaurato come un Caravaggio pop del XX secolo. Il capello, ormai tappa turistica obbligata dopo aver ammirato il Cristo Velato, è all'interno del Bar Nilo, dirimpetto al Corpo di Napoli. La sua storia è nota in tutto il mondo. E i giovani baristi, Nicola Russo e Gennaro D'Andolfo, possono solo aggiungere che «vengono a fotografarlo da ogni Paese. Dall'Argentina e dalla Spagna, soprattutto ma pure dall'Olanda, dove in un museo d'arte contemporanea c'è una copia». Poco lontano, a Santa Maria La Nova, un altro santuario temporaneo per la divinità del Te Diegum. Ferdinando Sparnelli di Filottica ha tolto gli occhiali dalle vetrine e le ha tappezzate di immagini in bianco e nero di Maradona in azione. «Fanno parte della collezione di famiglia» racconta orgoglioso. «Un amico fotografo, dopo ogni partita, portava uno scatto a mio padre, tifoso accanito come me. Ho deciso di celebrare il mio mito. Le terrò esposte fino a lunedì». Ha anche una foto con l'autografo e da alcune buste ne tira fuori altre centinaia. «Niente San Carlo, non è facile, ma spero che Diego si ricordi della nostra passione e magari chieda di vedere il mio personale pantheon. Anche alle due di notte, se mi avvertono, correrò ad aprire il negozio, per lui». La speranza non muore mai. I luoghi passano, la memoria resta.

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