Il ventre molle che chiede e non dà

di Paolo Macry
Martedì 16 Gennaio 2018, 22:51
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Nel dilagante (e benemerito) dibattito sulle babygang, non è mancato il classico argomento autoassolutorio. Quanto accade a Napoli, è stato detto, accade in molte altre città, anzi in tutte le città. Un’assonanza di maniera. Perché, certo, il fenomeno delle culture giovanili aggressive esiste anche altrove, ma, su questo piano, Napoli sembra una sorta di laboratorio. Sta costruendo (e non da oggi) un modello di violenza impensabile, per esempio, a Milano. Ed è assai meno innocente di quanto può sembrare. 
A prima vista, ciò che accade oggi riguarda gli equilibri (o, meglio, gli squilibri) tra centro e periferia, tra la Napoli di Chiaia e del Vomero e la Napoli di Scampia e di Ponticelli. Tra la città borghese e la città popolare (se vogliamo buttarla in sociologia). Le cronache raccontano di gruppi di ragazzini che vengono dall’hinterland degradato e si scagliano a casaccio contro altri ragazzini che essi identificano con la città opulenta. Uno di loro l’ha detto chiaro e tondo: ce l’abbiamo con chi ha quello che noi non abbiamo, ce l’abbiamo con chi vive nei quartieri ricchi. La buttava anche lui in sociologia? Può essere. E tuttavia è questa, assai spesso, la concreta direzione dei raid punitivi. Periferie contro centro. 
Il fatto è che le diseguaglianze strutturali e culturali tra periferie e centro esistono dappertutto nelle metropoli contemporanee, mentre il fenomeno delle gang dei ragazzini è (al momento) una specialità vesuviana. 
E questo può spiegarsi, senza dubbio, con taluni caratteri dell’hinterland napoletano, la debolezza della condizione familiare, l’alta evasione scolastica, la pervasività delle reti criminali, ecc. Ma altrettanto si spiega con il carattere friabile, poroso, se non addirittura colluso del “cuore borghese” della città. Se la pressione delle periferie violente appare così efficace e diffusa, è anche (forse soprattutto) perché Napoli non fa resistenza, non oppone una cultura della legalità, non difende i valori della convivenza, non reagisce. Anzi, accetta, appare rassegnata, asseconda.
Arrivando nel paradiso del “lungomare liberato” con mazze, coltelli e pistole-giocattolo, le babygang trovano un ambiente che, per certi versi, gli assomiglia. Anche nell’aspetto, nel taglio dei capelli, nelle divise nere, nella gestualità nervosa, nelle parole urlate. Chi riesce a distinguere il branco dalla folla delle vittime, prima che si scateni l’inferno? Ma poi sono altre le assonanze che contano. A Napoli, anche tra i palazzi settecenteschi di Chiaia, nelle strade umbertine del Vomero, nelle colline panoramiche del “sacco edilizio”, mille pratiche di violenza si manifestano quotidianamente. Accettate in modo supino o sollecitate o direttamente messe in atto dalla cosiddetta società civile. E basti citare una lunghissima storia di prevaricazioni di piazza, il vandalismo dei “disoccupati organizzati” (oggi scomparsi, ma di quanto veleno hanno infiltrato la cultura cittadina?), le aggressioni ai conducenti di bus, la militarizzazione dei marciapiedi da parte dei guardamacchine, perfino l’aggressività dei lavavetri. Oppure quell’altro capitolo di violenza subliminale e collettiva che è il traffico automobilistico, i sorpassi killer, le vetture parcheggiate che bloccano intere strade, l’urlo dei clacson in fila, l’unanime dimenticanza del diritto alla vita di pedoni, anziani, donne con le carrozzine. O ancora la violenza sistematica del microabusivismo edilizio, delle infinite superfetazioni. O l’invasione proterva dei rifiuti dovunque capita. È un’intera città che mostra ormai assoluta consuetudine con il linguaggio della forza fisica, con la brutalità di chi calpesta lo spazio altrui, con il feroce individualismo che disprezza i diritti. E sarebbe ben strano addebitare questo puzzle di sopraffazioni alle periferie inselvatichite. È Napoli, anche la Napoli delle bellezze architettoniche e ambientali, che appare inselvatichita. Che, direbbe Norbert Elias, non ha metabolizzato il lungo e vittorioso processo di civilizzazione dell’Occidente. 
Ed è questo ventre molle della metropoli che non reagisce alle manifestazioni dell’aggressività giovanile, che assiste senza muovere un dito al massacro di Arturo (come ha denunciato sgomenta la madre del ragazzo), che si guarda bene dal testimoniare davanti agli organi di polizia, che si chiude nella propria tradizionale omertà e che altrettanta omertà suggerisce ai propri rampolli maneschi. Pretendendo al tempo stesso, contraddittoriamente, un più severo intervento da parte dello Stato. E sarà pure necessario che lo Stato faccia di più, come ieri ha promesso il ministro Minniti. Ma sembra difficile, molto difficile, che basti Minniti a sconfiggere l’assuefazione di Napoli alla cultura della violenza. Un sorta di droga. Della quale, come per tutte le droghe, è in primo luogo necessario rendersi conto, prima ancora di assumersene la propria individuale parte di responsabilità. 
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