Le notti della nuova camorra

di Vittorio Del Tufo
Domenica 19 Novembre 2017, 21:49
5 Minuti di Lettura
L’esplosione di violenza della scorsa notte, con le due bande di pistoleri minorenni che si sono affrontati nel cuore della movida napoletana, dimostra in modo ormai inequivocabile e netto quello che purtroppo è sotto i nostri occhi da tempo: Chiaia, con i suoi Baretti e le sue notti fuori controllo, non è più o non è solo il palcoscenico di una movimentata bohème - solo gli ingenui e gli sprovveduti lo credono ancora - ma un teatro di caccia, il luogo e il terreno scelto da bande di criminali per consumarvi le proprie battaglie. È, soprattutto, lo spazio urbano dove sta andando in scena una guerra che il resto del paese ignora, come purtroppo ignorano coloro che amministrano la città.
È una guerra tra ragazzini, certo, che tuttavia assume i connotati di una vera guerra di camorra. Perché della camorra per così dire dei «padri», questi ragazzini che girano armati nel cuore della notte replicano le dinamiche e mutuano la protervia, senza minimamente porsi il problema delle conseguenze che ne possono derivare. È una camorra, intesa come attitudine criminale, per certi versi più pericolosa di quella strutturata, verticale e gerarchizzata dei clan, che sparano per la conquista di porzioni anche minime di territorio. Perché cresciuta al di fuori di ogni consapevolezza, anche criminale. Senza alcun controllo gerarchico o strategico. Dunque una camorra (in senso lato) impazzita, che ha scelto Chiaia, e le zone del divertimento notturno, come proprio palcoscenico.
Che questa esplosione di violenza urbana pulviscolare, parcellizzata, sia ormai sfuggita a ogni controllo e sia diventata una grande emergenza nazionale lo sosteniamo da tempo. Oggi va ribadito con forza: tanto più che essa trova un terreno fertilissimo in una tolleranza zero sbandierata solo a parole e in una deregolamentazione totale che ha trasformato le zone della movida in una giungla, senza regole e senza controlli. Per anni, nonostante gli allarmi, le risse, le bottigliate e gli accoltellamenti, si è scelto di applicare il metodo dell’ostinato silenzio, della contemplazione passiva, dell’immobilismo totale, del «fate un po’ tutti come vi pare».
Di fronte alla gravità degli episodi come quello della scorsa notte diventano poco più che buone intenzioni i tentativi di imporre nuove e più stringenti regole ai titolari dei locali, codici di autoregolamentazione ai fruitori della movida e decaloghi della buona «vita notturna». Certo, ben vengano le nuove regole. Tutto meno l’inazione del passato, la tragica politica del lassez-faire che tanti danni ha prodotto non solo a Chiaia. Ma non illudiamoci, né consoliamoci nel pensare che quanto accaduto (e accadrà ancora) sia solo una questione di ordine pubblico, di divise, di controllo del territorio. Quei codici di autoregolamentazione, quelle regole e quei decaloghi parlano a una porzione di città già avvertita culturalmente. I ragazzi che decidono di armarsi, riunirsi in bande, incontrarsi nel cuore della città e sfidarsi per imporre, in modo antropologico, la legge del più forte, non solo vivono e vivranno al di fuori di quelle regole civili (minime, basilari) ma esprimono uno scollamento complessivo, il drammatico fallimento di ogni progetto di prevenzione, di ogni tentativo di recupero.
Chiaia e le altre zone della cosiddetta movida, da piazza Bellini a via Aniello Falcone, sono diventate proprio per la loro vocazione al divertimento notturno, per la loro capacità di accogliere assembramenti di giovanissimi, la «stanza di compensazione» dove si consuma e si sperimenta un degrado più ampio, che chiama in causa l’intera città e le sue fratture familiari e sociali, ma soprattutto la rottura di ogni confine, di ogni separatezza; la città, gli stessi abitanti di Chiaia, si erano illusi di poter vivere dentro questa separatezza; da una parte noi e da una parte loro, gli esclusi, i violenti, le bande di ragazzini che portano Gomorra nel cuore di quelli che alcuni si ostinano a definire salotti buoni, senza esitare a sparare contro i loro coetanei. 
Il fatto che i protagonisti della sparatoria di Chiaia non siano figli di quel quartiere, ma soggetti dalla forte attitudine criminale che hanno scelto quel quartiere come teatro delle loro imprese, non deve rappresentare un esercizio consolatorio o autoconsolatorio per nessuno. È un fatto, tuttavia: che impone una riflessione perché ci spiega quanto si siano diradati i confini tra il cuore della città e quelle che una volta venivano individuate come nicchie di esclusione sociale. Questo diradamento di confini fa venir meno anche il sottile velo di ipocrisia che ci faceva credere che a Napoli il bene e il male si sfiorano ma non si toccano; che la legalità e l’illegalità, il rispetto delle regole e il disprezzo delle regole, così come il benessere e la fame, potessero restare separati senza incrociarsi. Due mondi distanti. Non è così.
Questo è il racconto di un fallimento, di un naufragio. Il naufragio delle politiche di deregolamentazione, appunto, ma non solo. Con l’esclusione dei volontari, il cui sforzo è encomiabile, e di numerose parrocchie, questa città ha smesso di sporcarsi le mani con gli esclusi. Ha smesso di farlo quando ha scelto di intervenire su vite e traiettorie già deviate, anziché muoversi in una logica di controllo e di prevenzione; ha smesso di farlo quando ha dilapidato i fondi destinati ai progetti per la dispersione scolastica, come ha documentato nei giorni scorsi un’inchiesta del Mattino firmata da Daniela De Crescenzo; ha smesso di farlo quando ha ridotto in briciole la rete dei servizi sociali; la quale rete, dissanguata dai tagli, non sembra più in grado di promuovere un solo progetto in grado di prevenire i fenomeni di devianza, impegnare i presidi e gli insegnanti, chiamare alle loro responsabilità i genitori. Tutti i tavoli e i comitati di questo mondo, senza una rete di interventi e di servizi sociali, e un welfare degni di questo nome, non basteranno a raddrizzare la schiena alle famiglie sventrate, spesso divise dal carcere, che non riescono più ad esercitare alcun controllo gerarchico, o patriarcale, sui propri figli. 
Li lasciano semplicemente liberi di andare per il mondo, anche se quel mondo è un quadrilatero di strade dove anche il divertimento rischia di diventare un rito tribale.
© RIPRODUZIONE RISERVATA