Pensioni, sulla pelle dei più giovani

di Pietro Reichlin
Domenica 19 Novembre 2017, 21:52
4 Minuti di Lettura
L’avvicinarsi della campagna elettorale e i segnali della ripresa economica contribuiscono a riaccendere la polemica sul sistema previdenziale. Il Parlamento rimette in discussione il meccanismo automatico di adeguamento dell’età di pensionamento alla speranza di vita, il governo concede ulteriori deroghe e Berlusconi promette un “ministero per la terza età”. La Cgil si appresta a convocare uno sciopero generale per impedire un aumento di 5 mesi dell’età di pensionamento al 2019. Tutto ciò avviene nonostante che il governo abbia messo sul piatto l’estensione delle esenzioni all’aumento dell’età di uscita a 15 categorie di lavori usuranti (il 10% delle uscite secondo stime) oltre alla proroga dell’Ape social, e il precedente governo abbia stanziato 7 miliardi in 3 anni sul capitolo pensioni. 
Questo scenario ci ricorda che oggi lo scontro sociale spesso sfugge alle categorie classiche del ‘900 e attraversa partiti di diverso orientamento politico. Qualunque sia il nostro collocamento politico, occorre chiederci se e perché lo scontro sulle pensioni sia una battaglia per l’equità e la solidarietà sociale. Ricordiamo allora i dati di fondo che hanno reso necessarie le ultime riforme del nostro sistema previdenziale. In Italia la speranza di vita dopo i 65 anni cresce inesorabilmente. Dal 1993 al 2015 è passata da 18 a 21 anni, la più alta tra i principali paesi europei. Al contempo, la durata media della vita lavorativa degli italiani e l’età media di pensionamento effettivo sono tra le più basse, rispettivamente 31 e 61 anni (contro 38 e 62,7 per la Germania). 
La condizione economica strutturale del nostro paese è particolarmente critica in relazione alla sostenibilità del sistema previdenziale, a causa della scarsissima dinamica della produttività, della bassa partecipazione al lavoro e dell’invecchiamento della popolazione. Infine, occorre ricordare che la spesa per pensioni assorbe il 15 per cento del Pil, un record assoluto nel panorama internazionale, e che la gran parte delle pensioni erogate sono ancora basate sul vecchio sistema retributivo, con prestazioni mediamente superiori ai contributi effettivamente versati. In questo scenario, è inevitabile concludere che ogni deroga da un sentiero di contenimento della spesa si rifletterà su un peggioramento delle prestazioni a favore di categorie sociali svantaggiate (disoccupati, poveri) e un aumento dei contributi per i lavoratori più giovani, a meno di non voler percorrere la strada, per noi esiziale, di un aumento ulteriore del debito. Naturalmente, nessuno di coloro che oggi chiede di fermare l’adeguamento dell’età di pensionamento (il cui costo è valutato in 140 miliardi in 10 anni) è disposto a riconoscere l’effetto redistributivo delle proprie rivendicazioni o si premura di indicare i modi per finanziare le nuove spese. Questo limite di responsabilità può essere compreso nel caso delle organizzazioni sindacali, che hanno una particolare attenzione verso i lavoratori anziani (e stabili). Maggiore responsabilità e consapevolezza dovremmo attenderci da partiti politici che ogni giorno si propongono come avversari della pressione fiscale e difensori dei giovani. Il fatto è che questi ultimi sono, in realtà, la categoria meno rappresentata dalla politica e dalle parti sociali. Essi hanno pagato molto più degli anziani e dei pensionati i costi della crisi, sia in termini del livello dei redditi che di disoccupazione, e pagano un prezzo salato anche per la scarsità d’investimenti nella formazione (scuola e università). Alcuni vorrebbero farci credere che l’anticipo dell’età di pensionamento potrebbe beneficiare anche i giovani, in particolare chi è destinato a carriere intermittenti, un’entrata tardiva e poco remunerativa sul mercato del lavoro. È un’illusione. Per costoro, una vita lavorativa più breve sarebbe un vantaggio solo se lo Stato fosse in grado di farsi carico di una quota rilevante dei contributi previdenziali o di produrre altre forme di assistenza, che oggi sono già molto scarse.
Se vogliamo avere più risorse per prestazioni assistenziali dobbiamo mettere in equilibrio il sistema previdenziale, e il modo più giusto per farlo è adeguare l’età di pensionamento all’aspettativa di vita, almeno in tutti casi in cui questo è possibile, cioè salvaguardando i lavori usuranti. Stupisce che molti di coloro che si collocano a sinistra non riconoscano che, in Italia, un aumento dell’equità e della solidarietà sociale ha poco a che fare con la previdenza, ma richiede il rafforzamento di altri strumenti oggi scarsamente finanziati o del tutto assenti in Italia, ma ampiamente usati nei paesi del Nord Europa. Penso a un sussidio di disoccupazione universale adeguato, ai trasferimenti alle persone in stato di indigenza al credito d’imposta a favore dei lavoratori poveri e a un salario minimo che possa compensare il necessario decentramento della contrattazione. 
© RIPRODUZIONE RISERVATA