Federico Buffa: «Insigne è un profeta del calcio di strada»

Federico Buffa: «Insigne è un profeta del calcio di strada»
di Valentino Di Giacomo
Giovedì 5 Ottobre 2017, 14:37 - Ultimo agg. 14:39
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Diego Maradona e Muhammad Alì, Johan Cruijff e Michael Jordan. Federico Buffa sa meglio di altri che le gesta dei grandi miti dello sport, mirabilmente raccontate attraverso libri, teatro e speciali tv, non sono mai delimitate da un campo, una pista o da un ring. Fuori e dentro gli eventi sportivi più importanti c'è la storia degli uomini e le storie di tutti noi. Epoche che passano e poi si ripresentano in maniera quasi identica a distanza di anni, a volte di secoli. Buffa, nato a Milano 58 anni fa, sta raccontando in questi giorni su Sky Sport la storia di Jesse Owens, l'atleta americano di colore che strabiliò persino Hitler alle Olimpiadi di Berlino del 1936 vincendo ben quattro medaglie d'oro. Con il successo teatrale «Le Olimpiadi del 36» è stato lo scorso anno anche al San Carlo di Napoli, una città a cui è legato in maniera viscerale. «Napoli è il mio Stato preferito racconta in un parco di Milano nei pressi dell'ex fiera campionaria È una capitale con una sua lingua, una propria tradizione teatrale riconosciuta in tutto il mondo, senza parlare della musica. Per me è uno dei luoghi più importanti della terra. Ogni volta che torno a Napoli mi incanto a guardare il Vesuvio, un vulcano attivo, strapotente, per me è un'attrazione fatale e mi fa pensare all'anima incredibile di questa città».
 



Una città che oggi vive altre eruzioni, quelle di gioia per la squadra di Sarri. Un allenatore che tutti ritengono molto vicino a Sacchi, personaggio che spesso ritorna nelle sue storie. Arriverà anche lui ad essere un mito?
«Sarri ha quello che serve ad un club come il Napoli rispetto al contesto, è un ossessivo maniacale, uno che non crede ci sia un numero sufficiente di ripetizioni per ogni allenamento perché non si è mai imparato abbastanza. I giocatori del Milan dell'era Sacchi mi raccontano fino a che punto lui poteva arrivare, era una sorta di penetrazione psicologica costante. Billy Costacurta mi ha spiegato più volte che alcuni movimenti ormai non li pensavano neanche perché erano entrati nel loro metabolismo tecnico. Si vede che il Napoli ha queste stesse caratteristiche, bisogna solo vedere per quanto tempo Sarri riuscirà a farlo».

Teme non reggerà il ritmo fino a fine stagione?
«Non dico questo. È che non è dato sapere se il mister riuscirà ad arrivare alla testa dei suoi giocatori per un periodo più ampio. In questo mi ricorda Antonio Conte o José Mourinho che dopo qualche anno sono costretti a cambiare club perché dopo un po' è difficile riuscire a restare in linea con la metrica del pensiero di un uomo del genere. Mediamente tre o quattro anni è il limite. Quindi il Napoli deve riuscire a vincere in fretta con questo allenatore perché lo sta avendo probabilmente al picco di sempre, ha una capacità di insegnamento fuori dalla norma. I giocatori si accorgono che quello che dice lui, proprio come accadeva al Milan di Sacchi, poi si verifica in campo e quindi sono portati a credergli per davvero».

Tra questi calciatori c'è Insigne. Che idea si è fatto di lui?
«Del Napoli, a parte il fenomeno belga, questo è il mio preferito. Napoli è l'unica città d'Italia dove si gioca ancora a calcio in strada come ci giocavano Cruijff, Pelé, Best. È veramente un giocatore diverso, sorprendente, adoro vederlo. Si nota che pensa diverso e se ne accorgono anche i suoi avversari che è così, ha proprio un altro modo di muoversi, è un calciatore unico nel panorama italiano, quindi lo si guarda più volentieri. E poi è singolare che un napoletano riesca ad imporsi nella propria città».

In effetti i precedenti sono davvero pochi.
«Napoli è spesso più legata al suo esterno. Nella lingua, ad esempio, che è una rivisitazione del francese con parole spagnole. È una città posizionata nel Mediterraneo in un certo modo, non sarebbe possibile per Napoli chiudersi e infatti spesso il meglio della napoletanità è la rielaborazione di ciò che viene da fuori».

Come il caffè?
«Appunto: è palesemente il più buono del mondo, ma non è nato a Napoli. Una città che, come sta accadendo con Sarri, ha bisogno di qualcuno che le dia disciplina e che ti fa capire di essere più bravo di quello che ti hanno detto. È quanto è avvenuto trent'anni fa con Ottavio Bianchi».

Allora c'era pure un certo Maradona, un personaggio che ha saputo descrivere in modo sublime nei suoi speciali in tv.
«È stato il primo che ho raccontato per Sky. La grandezza di Diego, troppo spesso sottovalutata, è che lui non ha mai detto una parola offensiva ad un suo compagno di squadra. È il valore di Maradona più forte di tutti, uno che ha sempre avuto i compagni dalla sua parte perché aveva un modo eccezionale nel saperli prendere».

Mi sbaglio se dico che oggi i miti come Maradona, Alì o Jordan non esistono più?
«Gli atleti di oggi sono più ricchi, più viziati e fanno più fatica ad esporsi. Ma ci sono sempre miti da raccontare, cambiano i modi. Oggi è più difficile perché tutti possono vedere tutto in tv, ad esempio il non visto della radio forse contribuiva a dare più fascino. Oggi mi colpisce Michael Phelps, io non avrei mai creduto che un altro atleta potesse vincere più delle 7 medaglie d'oro di Mark Spitz a Monaco '72. Phelps ci è riuscito, ma le storie di sport sono belle se, come accaduto per Maradona, c'è quella dialettica interiore tra l'uomo e lo sportivo. Di solito la distanza è tra l'uomo in difficoltà con se stesso e lo sportivo che invece riscatta tutti i limiti dell'uomo. Michael è un altro di questi: un bambino iperattivo, un anfibio che in acqua sta molto meglio che fuori».

È strabiliante anche la dialettica che esiste tra la storia dello sport e la storia del mondo con i suoi eventi. Le Olimpiadi del '36 sono un caso esemplare.
«Un'Olimpiade, quella di Berlino, dove un ragazzo di colore come Jesse Owens vince 4 medaglie d'oro sotto gli occhi di Hitler. Una storia sinistramente attuale».

In America Trump ha rispolverato il motto «American First», in Germania alle ultime elezioni l'ultradestra ha raccolto milioni di voti. Stiamo rivivendo un periodo simile?
«C'è pure la secessione spagnola: nel '36 i catalani provarono ad organizzare un'Olimpiade alternativa a Barcellona che non si disputò solo perché in quei giorni scoppiò la guerra civile. Effettivamente è un gioco sinistro guardare la prima pagina di un giornale di oggi, le cose tornano, magari con una forza diversa, ma di sicuro tornano. Ciò che mi colpisce di più è il ritorno della questione razziale negli Usa».

I giocatori di basket, lo sport che probabilmente ama di più, si siedono per protesta quando suona l'inno.
«Ti racconto una cosa che non ho mai detto, qual è il gesto di protesta nera più famoso nella storia dello sport?».

John Carlos e Tommy Smith che alzano i pugni con i guanti neri alle Olimpiadi del '68.
«Ecco, i due ragazzi avevano seguito delle lezioni di black history dell'università di San Josè State. Il loro docente era un ragazzo di 25 anni, di lui si sono perse le tracce per tanto tempo ed è fuggito dagli Stati Uniti perché era uno degli ideologi del boicottaggio. È andato in Canada, poi è tornato e ora fa il mental coach dei San Francisco 49ers e dei Golden State Warriors. Che coincidenza: oggi il quarterback dei San Francisco, Colin Kaepernick, si inginocchia all'inno mentre Steve Curry dei Warriors dice che lui alla Casa Bianca non ci va. Sono passati 50 anni dalle Olimpiadi del '68, ma come vedi le storie ritornano sempre».

E lei a Napoli ritornerà?
«A prescindere come direbbe Totò - sicuramente.
Ora sono in giro per teatri, spero anche a Napoli ci sia possibilità di venirci in tour, mi auguro arrivino richieste».

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