Un cambiamento che è segno dei tempi, difficile da accettare per il popolo azzurro

Un cambiamento che è segno dei tempi, difficile da accettare per il popolo azzurro
di Mimmo Carratelli
Mercoledì 5 Agosto 2015, 10:04 - Ultimo agg. 10:05
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Il San Paolo non ci sarà più. Nel 2018 avremo, a Fuorigrotta, un nuovo stadio di 41mila posti. Cancellati in un colpo solo i «centomila cuori» dei tempi di Sivori e Altafini, i 90mila di quello sfortunato Napoli-Perugia del 1979, la più bella folla delle domeniche napoletane, mezzo secolo di gioie e dolori, lo stadio di Maradona. Avanti, non c’è più posto. È il progresso, bellezza.



Certamente, studi di fattibilità e indagini di mercato sono giunti alla conclusione che il calcio di oggi deve avere stadi dimezzati perché sono le partite virtuali, quelle a pagamento sulle tv satellitari, il futuro del pallone, la passione compressa davanti a una scatola a colori con campi lunghi, primi piani, replay e occhi di falco. Perciò via la grandeur del passato, le belle cattedrali del pallone, gli stadi della passione incontenibile, le città del tifo. Nei nuovi stadi dimezzati, meno siamo meglio stiamo direbbe Renzo Arbore. Non si sa. Forse, a Napoli viviamo di nostalgia, siamo dei romanticoni, vogliamo sognare sempre in grande e il San Paolo che si restringe e diventa un altro stadio, senza storia, senza ricordi, senza più l’eco di pomeriggi e notti indimenticabili, ci spezza il cuore. Eravamo la capitale di un regno, siamo stati una delle capitali del calcio con uno dei più grandi stadi del mondo. Non siamo più niente. Per il pallone avremo un salottino per pochi intimi.



Sta succedendo, nel calcio, quello che successe nei giornali col passaggio dalle linotype ai computer, dal tumulto delle vecchie macchine da stampa al silenzio asettico dei cervelli elettronici, dal calore del piombo fuso alla freddezza inanimata delle tastiere e dei display. Nei giornali, la passione e la sana agitazione sono finite. Succederà nel calcio. Forse, Napoli è un caso particolare. Alla Juventus basta uno stadio da 41mila posti, la passione bianconera non vive a Torino, tracima nel resto d’Italia. A Napoli, no. Vorremmo avere uno stadio da un milione di posti, quanti siamo, perché viviamo di pallone e, poco poco che le cose vanno bene, allo stadio siamo una folla. In un pomeriggio di dicembre del 1959 scendemmo dallo stadio della collina, il “Vomero” di Jeppson, Vinicio e Pesaola, per entrare nel grandioso ovale di travertino a Fuorigrotta disegnato dall’architetto Carlo Cocchia. Il San Paolo. Il nostro Maracanà. In collina eravamo in ventimila, spettacolarmente stipati sotto una fungaia di ombrelli nelle giornate di pioggia. Fu uno stadio di passaggio, fra l’Ascarelli e il San Paolo. Non avemmo nostalgia del Vomero, pur legati a quelle due rocambolesche vittorie sulla Juventus che ce le raccontiamo ancora. Andavamo nel grande stadio che la nostra passione meritava, a Fuorigrotta. Ci siamo da 56 anni sopportando la riduzione dei posti, dagli 89.992 iniziali agli 85mila, poi ai 78mila e, infine, ai 62mila di oggi, sopravvivendo agli scempi di Italia ’90, all’orribile copertura in ferro e al disastro di un manufatto in rovina.



Sicuramente gli esperti, che non mancano nel nostro paese, ci convinceranno della inevitabile riduzione, dello stadio più piccolo perché il calcio fa sempre meno spettatori e c’è un calo vistoso degli abbonamenti anche a Napoli. Perciò facciamocene una ragione e non stiamo a inorgoglirci di essere andati in 45mila per Napoli-Cittadella in serie C, quattromila rimarrebbero fuori nel nuovo stadio. Ma se arrivasse un nuovo Maradona, se dovessimo vedercela col Real Madrid, se dovessimo giocare per lo scudetto a San Gennaro piacendo, come la metteremo? Cioè dove li metteremmo gli altri quarantamila tagliati fuori dal mini-stadio di 41mila posti? Sarà uno stadio bellissimo, questo progetto minimalista, sarà funzionale, con tutti i servizi di prim’ordine, box e salottini, e magari buvette e un ristorantino, e una giostra per i bimbi, ma, così prevedibilmente ridotti, è come se dimezzassimo anche i nostri sogni, le belle illusioni e le gloriose ambizioni. Si parla tanto, con l’arrivo di Sarri e il nuovo progetto azzurro, di “empolizzazione” del Napoli. Stiamo già “empolizzando” lo stadio. Piccolo sarà anche bello. Ma ci piange il cuore. Nel grande stadio ci sentivamo grandi anche se piccole cose succedevano in campo. Siamo nel pieno della trilogia di Italo Calvino: tifosi rampanti, poi tifosi dimezzati, ora tifosi inesistenti nello stadio nuovo. E se una notte d’inverno un viaggiatore chiamato Diego venisse a Fuorigrotta non ci riconoscerebbe più.