Vinicio e le sue sfide Juve-Napoli: «L'orgoglio e il superpremio, così battemmo Charles e Sivori»

Vinicio e le sue sfide Juve-Napoli: «L'orgoglio e il superpremio, così battemmo Charles e Sivori»
di Mimmo Carratelli
Giovedì 11 Febbraio 2016, 15:13
5 Minuti di Lettura
Nel tinello di casa Vinicio, al settimo piano di un palazzo di via Manzoni con vista panoramica sul San Paolo, niente feijoada, lo stupendo piatto del Brasile, stufato di maiale con fagioli neri, legumi, salsiccia e una salsa a base di aglio, cipolla e pancetta. Donna Flora, la leonessa, moglie di Luis, ha preparato il bacalhau servendosi di una delle 365 ricette per prepararlo alla brasiliana. Il leone è in forma. Sabato c'è Juventus-Napoli e lui alla squadra bianconera ha segnato sei gol, anche una doppietta. Correva l'anno 1957 e correva il Napoli. Cinque vittorie consecutive (anche un 6-0 al Verona) e un pareggio, poi le pesanti sconfitte esterne con la Lazio e la Fiorentina, la vittoriuzza sulla Spal, i pareggi senza gol ad Alessandria e con la Roma. Al dodicesimo turno, la Juve a Torino. Era il Napoli allenato da Amadei che aveva preso Beniamino Di Giacomo, il bersagliere, e Carlo Novelli per rinforzare l'attacco. Scalpitava tra i rincalzi Dolo Mistone, il vomerese riscattato dal Gladiator di Santa Maria Capua Vetere dove aveva giocato con Italo Allodi, centrocampista, e Stelio Nardin.Vinicio fa una premessa col suo italiano sincopato: «Io avevo giocato con Garrincha nel Botafogo e lo proposi al Napoli. Era un fenomeno. Ma Amadei disse basta con gli stranieri e prese Di Giacomo. Era andato via Jeppson, mi toccava far gol quasi ogni domenica».

Arrivò Juventus-Napoli alla fine di novembre.
«Era la Juve di Boniperti, Charles e Sivori. Filava in testa come un treno. La inseguivamo noi del Napoli e la Fiorentina. Quando andammo a Torino, la Juve comandava con 19 punti. Noi e i toscani eravamo dietro a due punti».

Oggi è il contrario. È la Juve dietro di due punti.
«A Torino alloggiammo all'albergo Sitea, vicino la stazione di Porta Nuova. Ci andavamo sempre. E avevamo un problema, Bugatti con 39 di febbre».

Portiere in dubbio.
«Beato, il nostro massaggiatore, gli dette un antidolorifico, lo imbottì di cognac e lo forzò a mangiare una bistecca gigante».

Andò in campo.
«Ci tenevamo a vincere. Con la Juve erano sempre sfide sentitissime».

Aveste un altro motivo per batterla.
«L'orgoglio prima di tutto. Poi, al sabato, nell'albergo torinese si presentò Lauro, il presidente che mi aveva strappato alla Lazio. Il Comandante, ecco. Venne da noi giocatori e fece il suo discorsetto. Per i premi aveva sempre la mano tirata, ma quel giorno ci promise un premio doppio, centomila lire, se avessimo vinto».

Allegria! 
«Prima della partita, Umberto Agnelli premiò Bugatti».

Il gatto magico. Agnelli gli disse: Il nostro Combi è stato il più grande portiere italiano, lei ne è un degno erede. Bugatti aveva ancora la febbre. Ma Michelangelo Beato, leggendario massaggiatore azzurro dalle mani d'acciaio, piccolo, rotondo e nero come un tizzone, lo aveva apparecchiato' come si deve.
«Proprio così. Un febbrone. Sarà stata la cura di Beato, sarà stato il premio, sarà stata la stessa Juve ad eccitarlo, in ogni caso fece un partitone. Sulle sue parate costruimmo una straordinaria vittoria».

Non andava male in quegli anni a Torino. Due campionati prima l'1-0 di Jeppson, dieci anni prima i tre gol di Carletto Barbieri.
«Dieci anni dopo Barbieri, replicammo il 3-1».

Con Bugatti protagonista.
«Non so quante parate abbia fatto quel giorno, tre sicuramente decisive».

I giornali scrissero che, senza Bugatti, la Juve avrebbe vinto 7-3. Charles, Sivori e Boniperti tirarono da tutte le posizioni.
«Charles soprattutto sembrava avesse un conto aperto con Bugatti. Fu un duello spettacolare tra il nostro portiere e il gigante gallese che, alla fine della partita, fece i complimenti a Bugatti».

Charles non era poi così alto, un metro e 83. Più o meno la tua altezza.
«Ed eravamo entrambi due guerrieri, lottavamo di fisico e di tecnica. Io avevo contro uno stopper roccioso che non faceva compliment».

Rino Ferrario, un monzese. Dieci giorni dopo, in nazionale l'avrebbero soprannominato il Leone di Belfast. Nella capitale nord-irlandese si oppose all'invasione di campo dei tifosi.
«Fu una grande sfida con Ferrario. Ma ho incontrato stopper più duri, Ganzer del Torino, il sampdoriano Bernasconi, Janich, Maldini padre, Stucchi della Roma, Grosso che è stato il difensore che affrontai nella mia prima partita al Vomero».

Gol in 17 secondi, quel giorno. Lo sai che, al Vomero, quando segnasti due reti al Milan da zoppo all'ala sinistra, fu allora che diventasti il leone di Napoli?
«Questa non la sapevo. Ricordo che era il Milan di Nordahl, Liedholm e Shiaffino».

Ma torniamo a Ferrario. Lo fregasti saltando.

«Eravamo caricatissimi e andammo in gol dopo dieci minuti. Gasparini, uno dei nuovi nel Napoli, calciò una punizione e io battei Mattrel con un colpo di testa».

Brillavano nel cielo dello stadio le centomila lire promesse dal Comandante.
«Charles quasi ce le prendeva. Pareggiò nella ripresa anche lui con un colpo di testa, su corner».

Ma non era finita. Sessantamila persone allo stadio, un'atmosfera incredibile.
«Certo che non era finita. Quella Juve era strapotente e avrebbe vinto il campionato con otto punti sulla Fiorentina di Julinho, Lojacono e Montuori. Noi finimmo quarti a undici punti. Pareggiò Charles saltando più in alto di Franchini. Ma noi eravamo più vivi della Juve che ci appariva sempre più stanca e delusa per il grande assalto respinto da Bugatti».

Colpaccio a dieci minuti dalla fine.
«Li infilammo in contropiede. Gol di Novelli. La Juve era ormai stremata. Il terzo gol lo segnò Di Giacomo con un calcio di punizione».

Fantastico.
«Facevamo imprese così. L'anno prima avevamo battuto il Milan di Schiaffino a San Siro 5-3. Io feci una doppietta, due gol anche Pesaola, l'indimenticabile petisso, un gol Posio che era un mediano elegante».

Tre a uno a Torino e 4-3 nel match di ritorno al Vomero in aprile, Juve due volte kappaò.
«Fu una annata strepitosa. Al Vomero feci due gol. Segnai il primo dopo quattro minuti. Finii quarto nella classifica dei cannonieri».

Charles 28 gol; Eddie Firmani il sudafricano della Sampdoria soprannominato tacchino freddo 23; Sivori 22; Vinicio 21. Questa fu la classifica finale.
«Ma il gol più bello lo avevo segnato cinque mesi prima dell'impresa di Torino».

Flora sta ad ascoltare. 22 giugno 1957, un sabato, il leone e la leonessa sposi nella basilica di San Francesco a Piazza Plebiscito tra una folla di diecimila persone, Lauro compare d'anello. Un cagnolino strappò il velo di Flora che era lungo tredici metri. Un matrimonio da rotocalco.
«Il mio giorno più bello che continua dopo quasi sessant'anni».

Facesti un figurone arrivando in tight a bordo di una Cadillac.
«Ci si sposa una sola volta».

Sembra il titolo di un film. A proposito, Lauro pagò il premio di centomila lire?
«Ce ne dette cinquecentomila».
Diamo fondo al bacalhau. S'è fatta ormai sera
© RIPRODUZIONE RISERVATA