Tutti italiani ma stranieri per il Coni
ecco la squadra orfana dello Ius soli

Tutti italiani ma stranieri per il Coni ecco la squadra orfana dello Ius soli
di Lorenzo Iuliano
Domenica 15 Ottobre 2017, 22:48 - Ultimo agg. 16 Ottobre, 08:26
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Castel Volturno. A Victor non manca la leggerezza per scartare di lato. Andarsene da chi lo marca, dal puzzo, da ghetti che qui si chiamano Parco Saraceno, Pescopagano, Bagnara. In questo rettangolo che separa due canestri, lungo meno di 30 metri, c’è il destino. Lui tenta un terzo tempo. Duro da tenere. Ogni volta bisogna riprendere il fiato. E non è facile se hai solo 13 anni e spesso devi percorrere a piedi due chilometri per venirti ad allenare. Per lui il vero viaggio non è tornare a Itaca ma lasciarla. I buoni non hanno vinto in questa favola nera, dove ci sono trucchi, leggi, paure. Il canestro dà punti, non risposte.

Lo sport ha sempre aiutato i diversi a sentirsi uguali. Invece è un vangelo al contrario Castel Volturno, una sorta di enclave africana in provincia di Caserta: 42 nazionalità, 70 etnie, 20mila irregolari e il sindaco Dimitri Russo che vorrebbe la città candidata al Nobel per la Pace. Proprio qui le regole dello sport ora escludono vita e futuro. Il Tam Tam basket, nome nato dal suono onomatopeico della palla a spicchi sul playground, è una squadra composta totalmente da ragazzini immigrati di seconda generazione, tutti nati in Italia, ma non cittadini italiani. Li ha messi insieme l’ex campione Massimo Antonelli, il coach. Lui, scudettato con la Virtus Bologna e un glorioso passato anche a Napoli, ha scelto di occuparsi di quelli relegati nell’ombra e di offrire alle loro vite la disciplina dello sport. Gratis. Ne sono arrivati quaranta, dagli 11 ai 15 anni.

Altri scalpitano: potrebbero aumentare a sessanta e ci sono pure ragazze, ma tutto è in stand-by perché non ci sono spazi sufficienti per allenarsi. Il coach ha contribuito a dare una sistemata a questo palazzetto dello sport in via Occidentale, ma non basta. Ora tutti loro da qui hanno ingaggiato una battaglia per far capire che non esistono vite fuori misura, che non si fa lo sport con il passaporto in mano e non si gioca con il colore della pelle. Quando ha provato a iscrivere la squadra al campionato under 14 ad Antonelli è stato mostrato il regolamento della federazione italiana pallacanestro, che consente non più di due atleti extracomunitari in squadra.

E al Tam Tam sono tutti stranieri per la legge italiana. Pure se questi ragazzini parlano napoletano e per loro l’Africa è solo l’eco di racconti arrivati di sbieco. Faisal ha 14 anni, è originario del Ghana ma la sua famiglia è arrivata qui ben 24 anni fa: «Sono nato a Giugliano, non sono mai stato in Africa, ho visto solo qualche foto. Mia madre guida il taxi, a casa parliamo prima l’italiano e poi l’inglese, cos’altro dobbiamo fare per essere come voi?», chiede con un moto di stizza. 

È lo ius soli che manca. Così sport e diritti civili incrociano ancora le strade di periferia. «Nello sport c’è uguaglianza per i minori, ma poi le federazioni hanno ampia discrezionalità, per cui viviamo il paradosso che per le squadre under 13 non ci sono limiti e infatti la nostra gareggerà nei gironi, ma per gli under 14 non possiamo essere ammessi», protesta Antonelli, che ha scritto al presidente del Coni Malagò, chiedendo di cambiare le regole.

«Basterebbe utilizzare la dicitura “stranieri nati in Italia” senza limiti», propone. Ne è venuta fuori una campagna forsennata, con il sostegno di istituzioni, attori e gente comune che hanno firmato l’appello «Io sto con il Tam Tam basket». Al coach non è piaciuta la replica della Federbasket: «Noi non iscritti? Abbiamo iscritto eccome la squadra ma non i singoli, perché costa 90 euro ad atleta e non possiamo permettere la beffa di pagare senza partecipare al campionato».

Lo sport regala libertà, ma solo dopo un periodo di schiavitù. Quello stop nasce da un timore delle federazioni giovanili, soprattutto nel calcio in verità. E per chi arriva dall’Africa. A volte sembrano bambini ma non lo sono, vengono reclutati per l’Europa. Età nascosta, abbassata. Li distribuiscono nelle giovanili di squadre agonistiche e c’è chi incassa soldi. Ma Victor e i suoi compagni non ci stanno. Anche se inizia a far buio più presto nessuno manca all’appello negli allenamenti di queste sere, interrotti spesso dai riflettori delle tv nazionali.

Victor è il figlio del pastore protestante della comunità nigeriana, frequenta le superiori in un istituto tecnico di Capua: «Mio padre dice che Dio traccerà una via d’uscita da questa brutta situazione, dice pure che dobbiamo continuare a insistere e a impegnarci». Suo padre è in Italia da 12 anni, arrivato sul litorale per cambiare la sua vita di ambulante. «Stiamo vivendo un’ingiustizia, noi mangiamo e giochiamo con gli altri. E poi non possiamo fare un campionato?», arringa il piccolo. Suo fratello maggiore King, casacca gialla alla moda, lo guarda da lontano con orgoglio e gli sorride. Accanto c’è James, 16 anni, il più grande del gruppo. Richard invece di anni ne ha appena 11.

Che cosa significa essere italiano? «Per me vuol dire far parte di qualcosa, di un posto in cui ti rispettano, ma così invece non veniamo affatto rispettati», risponde. Fevor indossa addirittura la maglia della nazionale italiana anche in allenamento. Come quasi tutti è nigeriano: «Per me avere questa divisa è un onore, sono nato in Italia e voglio avere gli stessi diritti dei ragazzi italiani. Faccio sport per migliorare la mia vita. Siamo una bellissima squadra e l’Italia deve vederci giocare». 

I grandi qui non si vedono, solo bambini. Qualcuno un po’ spavaldo alla Giovane Holden. E proprio Salinger del resto immaginava un mondo salvato dai bambini. I grandi qui non sono nemmeno comparse, ma a casa provano a insegnare la vita che conoscono ai loro figli: «Devi imparare ad affrontare tu i tuoi problemi», raccomanda il papà a Michael, 13 anni, seconda media all’adiacente istituto “Garibaldi”.

«Mio padre vende vestiti al mercato e ripete che ci spetta giocare perché siamo italiani in tutto, è un torto grave. Guarda che noi ragioniamo con il cervello e il sangue è rosso come il vostro, il colore della pelle non cambia nulla». Michael è sveglio, non vuole essere quello diverso, proprio lui che ha già avuto successo come attore. Ha girato diverse scene nel film di Alessandro Siani “Si accettano miracoli”. Lo racconta vantandosi: «Facevo il ruolo di Jamè, ero quasi il protagonista», ride. Non è mai stato in Africa né vorrebbe andarci. Sogna di diventare un play e la guerra, la fame, la lotta per un futuro migliore l’ha sentita solo nei discorsi dei parenti. 


I corpi timidi hanno spesso menti robuste. Imanuela, una delle poche ragazze del gruppo, 15 anni, è figlia di due nigeriani che hanno aperto un loro negozio etnico a Castel Volturno. La sua grande passione è «Ebolu oghe basket», come si chiama in nigeriano la palla a spicchi. «Mi dispiace per i miei compagni – ragiona – fanno tanti sacrifici per venire qui, perché spesso gli autobus non passano e abitiamo lontano». Imanuela chiama per nome quel rischio a cui nessuno vuol pensare: «Se si continua così c’è il pericolo che in tanti perdano entusiasmo e non si allenino più. Il coach però ci ripete che quando c’è un ostacolo bisogna mettercela tutta per superarlo». Si gioca su rovine e speranze. «Provaci ancora, Victor», urla il coach. Da tre. Canestro.
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