La giovine Italia del ct Nicolato:
«Contano esempio e sentimenti»

La giovine Italia del ct Nicolato: «Contano esempio e sentimenti»
di Bruno Majorano
Giovedì 13 Giugno 2019, 14:00 - Ultimo agg. 14:09
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La vita di Paolo Nicolato è stata a un bivio. Aveva poco più di 20 anni. Un bivio che da una parte portava al calcio e dall'altro portava alla fotografia: le due grandi passioni del ct dell'Under 20 che ha fatto innamorare tutti con la sua grande calma e signorilità e con quel festeggiamento alla Leonida di «300» durante il Mondiale in Polonia: lui al centro, tutti i suoi ragazzi in cerchio attorno. Un paradosso per un'epoca che vive di miti della panchina come quello di Josè Mourinho, allenatore che ha fatto della polemica e dell'arroganza i suoi veri punti di forza. No, Nicolato è di un'altra pasta. Dopo un errore arbitrale Mourinho fece il gesto delle manette. Di contro, in una situazione analoga (ma lui si giocava addirittura una finale mondiale) il ct degli azzurrini è andato in tv e ha detto che poteva essere stata «una svista arbitrale, certamente non un'ingiustizia».
 

Dopo l'eliminazione contro Ucraina caratterizzata dall'annullamento del gol del pari degli azzurri da parte del Var in pieno recupero, non ha rinunciato al consueto rito con tutta la squadra al centro del campo: ma questa volta al posto dei sorrisi c'erano le lacrime.

«Vederli così mi ha reso orgoglioso. Perché vuol dire che sono entrato nel cuore dei ragazzi. Ovviamente ci tenevamo molto alla finale, ma bisogna accettare le vittorie così come le sconfitte. L'importante è tirare fuori le emozioni. E noi anche nella sconfitta abbiamo dimostrato di essere sensibili».

Lei è più allenatore o istruttore?
«Per quanto mi riguarda cerco di comportarmi in modo corretto e dare l'esempio. Prima di tutto contano gli esempi, non le parole. Noi adulti abbiamo l'obbligo di essere modelli per i più giovani».
 
Anche lei aveva il volto segnato dal dispiacere, ma non per questo ha perso lucidità nell'analizzare l'andamento della partita?
«Il mio è stato l'atteggiamento di chi sa di aver fatto il possibile: delusione, certo, ma anche consapevolezza di aver fatto una cosa con amore. E tutti noi abbiamo questa certezza. Dobbiamo saper dare tutto con amore e senza calcoli. Solo così si sta in pace con se stessi».

Quel che dice non è mai banale: frutto di studi particolari?
«Sono perito elettronico industriale: nulla di più».

Cosa legge?
«Un po' di tutto: nulla di speciale».

E allora questi suoi modi e questi suoi ideali di cosa sono frutto?
«Mi piace molto cercare di capire i rapporti, le persone e quello che mi sta attorno. Sono curioso. E poi c'è la carriera ad avermi insegnato tanto».

Calciatore dilettante e poi un percorso sulle panchine delle giovanili del Chievo, dove ha vinto anche l'unico scudetto Primavera della storia del club veronese.
«La carriera mi ha insegnato tanto e anche io ho fatto tanti errori».

Il suo punto fermo?
«Creare il gruppo».

Perché?
«Averne uno forte e unito è la cosa più difficile. Così come averne uno che lavora insieme. Senza il gruppo è impossibile ottenere qualcosa. Si deve costruire un modo di intendere che sia condiviso».

Dopo questa esperienza, che non si ferma oggi perché domani si gioca la finale per il terzo posto contro l'Ecuador, qual è il messaggio che si aspetta passi anche agli altri allenatori?
«Dobbiamo tornare tutti a dare centralità alla persona. Perché quando si parla di sport si parla di persone che hanno sentimenti e bisogni. Oltre ad essere grandi conoscitori sotto l'aspetto tattico e fisico, infatti, dobbiamo capire i bisogni più intimi dei nostri ragazzi per trasmettere a loro i contenuti».

Tra le cose che hanno colpito di più, l'attaccamento di quelli che non hanno quasi mai giocato durante questa avventura in Polonia.
«Mi rende orgoglioso il loro comportamento. So perfettamente che non condividevano il fatto di stare fuori, ma hanno avuto rispetto per le decisioni perché sanno che sono state prese sempre per il bene comune e sanno che io sono una persona corretta. Ecco, vedere in lacrime anche loro è stata una delle gratificazioni tra le più grandi».

Quindi lei crede nel gruppo nella sua totalità?
«Le squadre forti si vedono da quelli che sono in panchina».

C'è un allenatore secondo lei in serie A che più di tutti incarna i suoi ideali?
«Sono molto affascinato dalla gestione del gruppo di Ancelotti».

Perché?
«Oltre ad essere una persona eccezionale, ha la capacità di coinvolgere e far sentire tutti all'interno del progetto».

E poi?
«Sa essere leader a tutto tondo. Un conto è essere autoritari e uno essere autorevoli: lui è molto autorevole. Lo ritengo un esempio da seguire».

Usciamo fuori dal campo: hobby?
«La musica e la fotografia. Ma la famiglia è la prima passione. Con tanto di cane».

Che genere di musica ascolta?
«Non faccio distinzioni, perché con la musica si può spaziare».

La fa ascoltare anche ai suoi ragazzi?
«Certo. Ma nello spogliatoio la lascio scegliere a loro perché quelli sono i loro momenti».

E se non avesse fatto l'allenatore, cosa le sarebbe piaciuto fare?
«Ho cominciato a fare questo mestiere talmente presto che non saprei. Mi ha sempre affascinato la gestione dei gruppi. Ma l'unica volta in cui mi sono trovato a un bivio è stato quando facevo anche il fotografo».

Perché?
«All'inizio della mia carriera di allenatore potevo scegliere tra le due strade, ma di domenica i fotografi sono impegnati e così facendo non avrei potuto essere in panchina. Alla fine ha vinto il calcio».
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