Così ultrà di Inter, Varese e Nizza
pedinarono tre capi della Curva A

Così ultrà di Inter, Varese e Nizza pedinarono tre capi della Curva A
di Leandro Del Gaudio
Martedì 8 Gennaio 2019, 11:00
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Si sono inseriti nei loro profili facebook, spacciandosi per «fratelli» tifosi azzurri e li hanno studiati per settimane, fino a conoscere i loro spostamenti. Solo a partire da questo momento, dopo aver appreso che in quel convoglio viaggiavano due o tre capi della curva A, sono passati all'azione. E sono andati a colpo sicuro. Con una precisione figlia di un'attenzione «social», grazie a una sorta di intelligence da teppisti. È quanto sta emergendo dalle indagini condotte sull'asse tra Napoli e Milano, quelle legate all'omicidio di Daniele Belardinelli. In questi giorni, la Procura di Milano ha raggiunto una piena conoscenza tecnica di almeno cinque auto che formavano il convoglio dei tifosi azzurri che da Napoli sono arrivati a Milano e che si sono trovati nell'imbuto di corso Novara. Grazie al lavoro delle Digos di Napoli e Milano, ci sono nomi di indagati per omicidio volontario, ma anche nomi di altri passeggeri della carovana arrivata a Milano la sera dello scorso 26 dicembre. È un fatto assodato che nel convoglio dei tifosi azzurri ci fossero anche tre capi della curva A, vale a dire gli elementi di vertice degli ultrà partenopei, a loro volta nemici giurati di quelli interisti. Ed è attorno al progetto di attentato che si coagula l'odio di interisti, varesini e nizzardi. Un mastice - la comune rivalità ai nemici napoletani - che consente a qualcuno di fare raccolta di informazioni, tanto per non sbagliare bersaglio e andare mirati. A colpo sicuro. Prima la raccolta di informazioni sulla trasferta (tappe a Teano e a Vigevano), poi sull'arrivo a Milano e finanche sulla composizione delle auto.
 
Stessa tecnica usata in un altro contesto, appena qualche mese fa, dai teppisti azzurri nell'aspettare nei pressi dell'aeroporto di Capodichino i tifosi della Roma che avevano fatto scalo da Barcellona: anche qui, raccolta di informazioni sui social, aggressione mirata, bottino militare e mediatico assicurato.

Indagini in corso, si cerca ora di stabilire di chi sia la responsabilità del delitto di Belardinelli. Ipotesi omicidio volontario. Otto indagati (ma il numero è destinato a salire), cinque auto riconosciute come quelle in transito a Milano. Oltre alla Volvo V40 nera, quella a bordo della quale c'erano i primi cinque indagati (tra cui un minore), c'è anche una Transit, anche in questo caso modello station wagon e di colore scuro: un'auto che reca alcune ammaccature nella parte anteriore su cui è logico attendersi delle verifiche di polizia giudiziaria.

Ammaccature sul davanti, dunque, spetta agli inquirenti capire se sono compatibili con l'investimento del 39enne ucciso a Milano. Clima rovente, la tensione corre sui social e diventa virale. Come le offese, ai limiti delle minacce, a carico dell'avvocato Emilio Coppola, il penalista che si è assunto l'onere di difendere due dei quattro indagati in questa indagine per omicidio. Offese, ingiurie contro chi ci ha messo la faccia, anche davanti alle telecamere, in uno scenario su cui si muove la Digos del primo dirigente Francesco Licheri.

Ma torniamo alle indagini milanesi. Oltre all'ipotesi di omicidio, si lavora anche sulle ipotesi di rissa e lesioni a carico degli interisti. Ed è in questo scenario che il gip Guido Salvini ha deciso di rigettare la richiesta di scarcerazione di Marco Piovella, il capoultrà interista, finito in cella otto giorni fa per quell'agguato alla carovana azzurra. Spiega il gip: «Ha seguito la regola dell'omertà» dei gruppi della curva, e ha mantenuto un silenzio tombale sui punti decisivi dell'inchiesta, che rappresenta anche «un forte ostacolo» per l'individuazione del responsabile della morte dell'amico Daniele Belardinelli.

Un «atteggiamento» il suo, data la sua «leadership» tra gli ultras nerazzurri, che potrebbe portare anche a nuovi scontri «qualora l'occasione nuovamente si ripresenti in altre e prossime trasferte dei tifosi con un rischio acuito dalla volontà di rappresaglie». È per questi motivi che per l'imprenditore-designer e capo dei Boys nerazzurri, detto «il rosso», viene respinta l'istanza di domiciliari della difesa, per altro in linea con il parere del procuratore aggiunto Letizia Mannella e dei pm Rosaria Stagnaro e Michela Bordieri.

E non è tutto. Spiega il gip: un eventuale ritorno a casa di Piovella rischia di alimentare quella tensione che corre sul filo dei social, vale a dire gli stessi strumenti usati per costruire l'agguato perfetto all'insaputa di tutti.
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