Aruta, l'addio dell'arbitro napoletano:
«Il sogno che è diventato un incubo»

Aruta, l'addio dell'arbitro napoletano: «Il sogno che è diventato un incubo»
di Gianluca Agata
Mercoledì 14 Novembre 2018, 07:00 - Ultimo agg. 09:56
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Arbitri si nasce. È un fuoco che cresce partita dopo artita, altrimenti le difficoltà lo sfumano. Nel corso di una visita alla sezione napoletana di qualche anno fa l'internazionale Rocchi disse: «Voi napoletani possedete la palestra migliore d'Italia perché già alle prime partite avete a che fare con tutte le possibili difficoltà che un arbitro ha nel corso della sua carriera». Pasquale Aruta, 25 anni, era un arbitro. Ha smesso. «Ambiente bellissimo, dirigenti fantastici, ma forse non era la mia strada, anche se la consiglierei». Gli insulti, il muso duro, l'arroganza, le brutture del calcio hanno lasciato il segno.

Come mai ha smesso?
«Ne ho viste tante, alla fine non faceva per me».

Ha mai subito episodi di violenza?
«No, episodi no, ma insulti tantissimi. Anche se quando sei in campo non li senti nemmeno. Mi rendo conto che fanno parte del gioco. Ma non dimenticate mai che in campo all'inizio ci va un bambino».

Come mai ha smesso?
«Non era la mia strada. Non era facile essere in campo con tutti che ti attaccano e credono che sia colpa tua. Praticamente ad ogni fallo, ad ogni contrasto, si scatena di tutto. Però, con giocatori e dirigenti le cose non andavano male. Più che altro è fuori che ci sono i problemi».
 
E i genitori?

«Sugli spalti accade di tutto. Ognuno ha in campo il suo piccolo Maradona. E, ovviamente, ognuno la vuole dall'arbitro perché pensano che il loro figlio ha sempre ragione, l'allenatore e l'arbitro sempre torto».

E l'ambiente arbitrale?
«Fantastico. Devo dire grazie all'ex presidente della sezione di Frattamaggiore, Bagnarola. Un padre, una persona che era sempre presente. In sezione si stava molto bene insieme. Ci chiamavano, ci esortavano, ci spingevano ad essere gruppo e ad aiutarci l'uno con l'altro».

E sul campo?
«Quando hai 15 anni non è facile entrare in uno spogliatoio. Sei lì, da solo, con la pressione delle due squadre, i dirigenti, i giocatori, i genitori. E raramente trovi qualcuno che è dalla tua parte e capisce che sei un bambino anche tu. Questa forse è la cosa più problematica con l'approccio a una partita. Capire che sei solo, non hai nessuno accanto, un modo di affrontare la realtà completamente differente da quella a cui sei abituato a casa o a scuola».

Per quale motivo ha cominciato?
«Mio padre aveva questa grande passione ed io ho voluto continuarla. Ad un certo punto mi sono reso conto che non faceva per me. Ma non ne posso parlare male perché è una situazione formativa, molto importante per un ragazzo proprio per le difficoltà di cui parlavo».

Consiglierebbe a un ragazzo di fare l'arbitro?
«Sicuramente sì, è formativa per un ragazzino. Poi se hai la passione e scopri che è la tua strada, va bene così perché c'è soltanto da crescere, imparare e divertirsi».

La situazione più pericolosa in cui si è trovato?
«A Casal di Principe c'erano due squadre con genitori sugli spalti che certo non si volevano bene. Trasmettevano nervosismo in campo. Hanno cominciato a insultarsi, era un brutto spettacolo da vedersi. Fortunatamente, però, i problemi erano tra di loro, non con noi in campo».

E perché ha continuato?
«Sa, quando ti arrivava l'assegno a casa non era male. Per un ragazzino di quindici anni vedersi arrivare un assegno di 300 e passa euro per una decina di partite fatte era una motivazione non indifferente. Facevi le vacanze, compravi un capo di abbigliamento. Poi la passione è via via scemata».

Ora a qualche anno di distanza come ricorda quel periodo?
«Bello, con tante cose interessanti, ma anche molte che non mi piacevano, soprattutto tra i tifosi, anche se con dirigenti e giocatori qualche volte dovevi intervenire a muso duro. Era una cosa necessaria perché dovevi farti sentire».
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