Niki Lauda coraggioso, non temerario: non faceva volare la fantasia, ma si faceva ammirare

Lauda, coraggioso non temerario: non faceva volare la fantasia, ma si faceva ammirare
Lauda, coraggioso non temerario: non faceva volare la fantasia, ​ma si faceva ammirare
di Piero Mei
Mercoledì 22 Maggio 2019, 08:04 - Ultimo agg. 12:18
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Niki Lauda forse non faceva volare la fantasia. Lauda si faceva ammirare. E quanto! Niki Lauda non faceva volare la fantasia come dopo di lui avrebbe fatto, al volante della Rossa più amata dagli italiani (e dagli umani, si direbbe), Gilles Villeneuve, il quale volò poi via lui stesso in un circuito. Lauda si faceva ammirare. Perché portava con sé ogni tipo di coraggio: quello di non arrendersi nemmeno in mezzo al fuoco che per poco non lo uccise sul circuito del Nurburgring nel '76, dove erano già morti 130 uomini di tutti i motori; quello di tirarsi via, strappando anche la pelle, il passamontagna insanguinato dalle cicatrici quando tornò a correre 42 giorni dopo l'incidente, e lo fece come uno di noi lo farebbe con un cerotto sopra un graffio; quello di non aver paura di avere paura, come quando, sotto la pioggia giapponese, non volle fare che un giro e poi andarsene all'aeroporto, e non riuscire nemmeno a sapere che Hunt gli aveva portato via il mondiale che era già suo, giacché l'arrivo di James fu proprio nel momento in cui la radio del taxi che lo portava rimase impallata sotto un tunnel.

L'uomo che visse due volte (e tre volte vinse il mondiale di Formula Uno) dicono ora che è morto a 70 anni, peacefully, tranquillamente, hanno detto i suoi cari, in realtà ne visse di più in quel corpo martoriato e pieno di pezzi d'amore, i due reni, uno del fratello e uno della moglie, i polmoni trapiantati dopo che i suoi erano rimasti bruciati e avvelenati per sempre dai fumi del Nurburgring. Ecco quale era il carattere che ne ha forse fatto la leggenda: c'è chi ha vinto di più, certamente, in pista e nella vita, ma non c'è chi s'è arreso meno di lui che non l'ha fatto mai. E andando incontro a tutto, una frenata più lunga, togliere il piede dopo, ma senza l'incoscienza sublime che fa l'Eroe, sportivo e no.

Lauda spingeva il piede e la vita fin dove sapeva di poterli spingere: un piccolo tratto più in là degli altri, perché sapeva che non bisognava smettere prima né andare oltre. Era uno di quelli che al volante o a piedi se la sbrigano con una sola e fondamentale regola: non mollare mai. Lo sapeva da sempre, da quando per pagarsi il posto alla guida, stipulò una polizza sulla vita e la dette in pegno per ottenere il prestito bancario necessario. Lo seppe quando, il primo giorno in Ferrari, disse che la macchina era una m e gli fu suggerito: «Non dirlo al Drake, digli solo che non va bene». Sapeva di doverlo fare quando riportò il titolo dei piloti e quello dei costruttori a Maranello, dove non erano più abituati. E quando il Vecchio gli dette del Giuda che s'era venduto per trenta salami quando cambiò macchina. Perfino nel ritiro («sono stanco di girare in tondo», disse) e nel ritorno mondiale c'era quella regola.
E quando lasciò il volante per la cloche di un aereo e per la compagnia che fondò. E quando tornò al Motorhome della Mercedes portando con sé, dicono, Lewis Hamilton. Che al nome Lauda non ebbe più niente da opporre o ridire.

Era questo, probabilmente, Andreas Nikolaus Lauda, nato il 22 febbraio 1949 a Vienna, una dentatura da coniglio, un eterno berretto (sponsorizzato: l'uomo non ha mai perso la lucidità dell'affare) a coprire le ustioni che ne avevano massacrato la chioma e il volto e l'orecchio destro, 171 gran premi e 25 vittorie. Un giorno disse: «Mollare è un qualcosa che un Lauda non fa». Anche se muore, non muore mai nella leggenda che ha vissuto e fatto vivere.
 

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