Giogiò ucciso a Napoli, Ruggero Cappuccio: «Usiamo il dolore collettivo per uscire dalla città nera»

Il direttore del Teatro Campania festival: «Educhiamo i più giovani alla bellezza»

Ruggero Cappuccio
Ruggero Cappuccio
Maria Pirrodi Maria Pirro
Martedì 5 Settembre 2023, 23:45 - Ultimo agg. 7 Settembre, 07:21
6 Minuti di Lettura

Nel giorno del funerale di Giovanbattista Cutolo, il musicista 24enne ucciso per un parcheggio, lo scrittore e regista Ruggero Cappuccio è lontano da Napoli. «Avrei voluto essere lì; purtroppo il lavoro mi porta altrove: sono immensamente addolorato, ma non sorpreso da questa tragedia».

Perché?
«È il risultato di un sistema dominato da poteri forti che punta solo a creare consumatori».

Parla da genitore?
«Non ho figli naturali, ma molti spirituali».

Che rapporto ha con i ragazzi?
«Dall’età di 22 anni, da quando mi sono laureato, ho insegnato italiano e storia. A questa lunga militanza si sono aggiunti il teatro e i tanti laboratori con gli adolescenti e i corsi universitari: credo che i ragazzi siano l’unica cosa seria di cui occuparsi davvero». 

Sono cambiati nel corso degli anni?
«Senza dubbio».

Perché?
«Perché si nasce con quattro pulsioni: mangiare, dormire, bere e riprodursi. A un livello più alto si hanno le emozioni, quando si capisce che non basta riempirsi solo di spaghetti o alcolici ma occorre misurarsi con l’estetica: la bellezza dei Faraglioni di Capri, “L’annunciazione” di Leonardo, la nona sinfonia di Beethoven».

E poi?
«Queste informazioni dell’anima vanno messe in fila per salire un altro gradino e arrivare a provare sentimenti, che non sono una dotazione innata ma effetto di una costruzione». 

In concreto, cosa accade?
«Il ragazzo che è morto amava la musica, che può essere apprezzata solo conoscendola: se il percorso inizia dall’infanzia, crescendo il giovane potrà avere accesso alla commozione, il massimo dell’educazione sentimentale; altrimenti, ascoltando la “Tosca”, gli sembrerà di vedere solo persone che urlano sul palco». 

Vuol dire che oggi manca un’educazione sentimentale?
«Sì. Perché non ci sono più mediatori sociali: il prete nei paesi che organizzava cineforum, letture condivise, colonie e calcetto; il medico condotto, psicanalista ante-litteram; l’ostetrica che si occupava anche delle difficoltà delle madri; il maresciallo dei carabinieri come conciliatore. Tutte figure sparite. E poi...». 

E poi, cosa?
«Oggi si confonde sviluppo con progresso, quest’ultimo riguarda il livello interiore e dovrebbe portare a non pensare alla guerra come soluzione di un conflitto». 

Invece?
«Non avviene più questa crescita spirituale. Non ci sono più né maestri né allievi, né popolo né religione».
Secondo il suo ragionamento, non resta che la «cattiva maestra televisione».

Colpa delle fiction, se si impone la violenza?
«Le fiction possono avere un effetto infiammatorio perché rappresentano solo una parte della società, rincorrendo le pulsioni.

Con la crudeltà diventata efferatezza, moltiplicata alla ennesima potenza. Ma i ragazzi oggi hanno un solo vero maestro: la rete; online trascorrono tutto il loro tempo libero, ma così pure gli esempi positivi che possono avere a scuola diventano insufficienti. E c’è anche un altro cambiamento rispetto al passato». 

Quale?
«Nella mia adolescenza, sia i figli di professionisti che di operai non avevano un soldo in tasca, quindi il divertimento non coincideva con il denaro come invece avviene oggi».

In questo spaccato si inseriscono le mafie.
«Attenzione, la struttura della mafia è diversa da quella della camorra. Qui bastano una pistola con matricola abrasa e tre amici per creare un clan».

Si discute di abbassare l’età per la punibilità: è favorevole?
«Bisogna dare un segnale al regime di impunità che imperversa, oggi un minore è anche strumento della delinquenza. Ma il carcere deve consentire la rieducazione, come prevede la Costituzione, e un’alternativa va data prima che si commettano i reati».

Meglio allontanare bimbi e adolescenti da famiglie e contesti pericolosi?
«Dipende dalle famiglie. Rita Atria, ai tempi di Paolo Borsellino, trovò la forza di staccarsi da sola da quel nucleo mafioso. Ma ci sono ragazzi che non avrebbero mai coraggio e mezzi per farlo da soli, invece intervenendo potrebbero essere salvati». 

Lei si è a occupato e ha scritto di questi temi. 
«I giudici Falcone e Borsellino avevano già chiaro che la sanzione e la punizione sono solo un aspetto della lotta alle organizzazioni criminali; entrambi evidenziavano il problema culturale».

Dunque, bene il blitz interforze appena messo a segno al Parco Verde, ma non basta.
«Esatto, quando si creano ghetti come le Vele o Caivano non si possono che ottenere questi “prodotti”».

Esistono due Napoli?
«Una città bianca e una nera. Quella nera produce oggetti criminali, che una parte della città bianca compra. Come la droga venduta anche a stimabilissimi professionisti, e questa situazione riporta all’originario discorso sulla necessità di una nuova dimensione spirituale».

Intanto, si discute se devono andare via i «buoni» o i «cattivi». Che ne pensa?
«Credo che l’umanità sia un unico corpo: se il braccio sinistro è integro e il destro aggredito da un eczema, la tentazione di un medico spregiudicato potrebbe essere di eliminare il braccio malato, ma in questo modo minaccerebbe tutto l’organismo. Il problema vero è mettere in relazione le varie parti, a un livello profondo». 

La politica ha questa sensibilità?
«Per la mia esperienza, ho visto non più di 5-6 politici nei teatri lirici. Un segnale chiaro».

Cosa propone per trasformare il dolore in riscatto possibile?
«Come ha fatto notare il maestro Riccardo Muti, si stanno smantellando le grandi orchestre ed è giusto invocarne tutti insieme la ricostituzione. Occorre innanzitutto un esercito di motivatori culturali che penetri nelle vite di questi ragazzi: solo attraverso musica e teatro è possibile riconnetterli con le loro emozioni. Un tipo di lavoro che, come direttore artistico del “Campania teatro festival”, porto avanti da 7 anni, coinvolgendo nella sessione autunnale rifugiati politici, immigrati, vittime di violenza di Forcella, adolescenti a rischio di San Giovanni e rione Sanità. E posso aggiungere che molti di questi ragazzi al “confine” hanno trovato anche un lavoro nel settore: la dimostrazione che si può, si deve agire».

Cosa ha imparato, lei, dai ragazzi?
«A pormi domande spassionate, vere, giuste. E a non dare nulla per scontato».

© RIPRODUZIONE RISERVATA