La Ue e l’occasione da cogliere con l’agricoltura

di Francesco Grillo
Lunedì 22 Aprile 2024, 23:23 - Ultimo agg. 23 Aprile, 06:00
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«Non c’è nessuno in questa stanza, le cui radici non tornano alla terra». Fu con queste parole che il primo Presidente della Commissione Europea, il tedesco Hallstein, presentò il primo bilancio di quella che si chiamava Comunità Economica e che dedicava all’agricoltura il 75% delle proprie risorse. Dopo settant’anni è alla terra che torna l’Europa perché non c’è nessun altro settore produttivo che avrà più diretta influenza sull’elezione del prossimo Parlamento europeo. Al cibo sembrano legati sia il passato che il futuro dell’Unione ed è per questo motivo che conviene a tutti i partiti politici capire meglio il triplice paradosso nel quale sono intrappolati contadini e grandi industrie di trasformazione alimentare.

Meno del 5% dei lavoratori europei è impegnato in agricoltura (erano un quarto prima del boom industriale): tuttavia, continuano ad essere molto rilevanti politicamente per tre ragioni. In primo luogo, è ancora l’agricoltura, l’industria alla quale l’Unione Europea dedica maggiori risorse (i 60 miliardi all’anno della politica agricola comune - Pac). E, però, anche quello dal quale arrivano le proteste che più fanno male all’Unione (come quelle del partito agrario che in Olanda ha cambiato il quadro politico opponendosi alle politiche ambientali di Bruxelles): forse perché gli elettori europei attribuiscono valore identitario a ciò che pensano gli agricoltori.

In secondo luogo, l’agricoltura riesce ad essere sia il settore che – dopo quello dell’energia - più contribuisce al cambiamento climatico; ma, anche, quello che ne subisce le conseguenze più devastanti. Questo dato va però differenziato per produzione: la carne produce più emissioni dell’intera industria chimica e petrolchimica; al contrario, sono a forte rischio olio e riso. Infine, non c’è dubbio che il cibo sia per l’Europa un valore distintivo: qualche anno fa, l’Economist calcolò il fatturato dei ristoranti di cucina italiana nel mondo valeva più di tutte le altre messe insieme. E, tuttavia, ciò fatica a tradursi in valore aggiunto e in Italia continuiamo ad esportare meno di quello che importiamo.

Le proteste dei trattori arrivate fino a Bruxelles, si stanno rilevando uno dei pochi fattori in grado di spostare voti e cambiare le priorità europee. E Giorgia Meloni, il Presidente del Consiglio che partì aggiungendo il mandato della “sovranità alimentare” al Ministero guidato da Francesco Lollobrigida, ha confermato al Vinitaly di Verona, di voler proteggere gli agricoltori. E, tuttavia, c’è una riforma capace di portare la politica europea dalla logica della “difesa” del settore, ad una politica industriale che lo trasformi in un vantaggio competitivo capace di vincere con le proprie gambe puntando sull’innovazione? Tre le idee da sviluppare ulteriormente.

Innanzitutto, va abbandonata l’idea del sussidio che – dopo settant’anni – è diventato permanente. Sussidio che è legato alla quantità (gli ettari) di terra coltivata. È una mentalità che da per scontata l’inesorabilità del declino.

E che, per definizione, non premia chi, invece - attraverso l’utilizzo intelligente di tecnologie o una migliore organizzazione – aumenta la produzione per ettaro o il valore che da quella produzione riesce ad estrarre. Certo che, nel tempo l’erogazione dei sussidi è stata condizionata ad una serie di controlli (che hanno però avuto l’effetto di aumentare la quantità di burocrazia che finisce con il danneggiare chi ha meno tempo); e, tuttavia, non c’è dubbio che l’idea della “garanzia del reddito” universale scoraggia (proprio come succede per il “reddito di cittadinanza”) chi voglia provare a non dipendere dal supporto dello Stato.

In secondo luogo, va superata l’idea – romantica – della tutela, a qualsiasi costo, della piccola impresa familiare: i sussidi sono disegnati in maniera da difenderla (mentre è, invece, giusto incoraggiare imprese nuove e giovani). L’agricoltura è un’industria che ha bisogno (come tutte le altre) di economie di scala e di chi, in azienda, si specializzi nel trovare nuove tecnologie o nuovi mercati. Un’alternativa alle grandi imprese che dominano i mercati internazionali (quelle americane o brasiliane) sono state le cooperative che riuscivano, persino, ad organizzare sofisticati canali distributivi: un modello che la tecnologia consente di modernizzare fortemente attraverso la condivisione di risorse.

In terzo luogo, va potenziata la seconda gamba della Pac, il fondo per lo sviluppo di aree rurali, che deve ospitare strategie territoriali finalizzare a rendere interi territori più competitivi, meno inquinanti, più resistenti a mutazioni del clima. Attualmente, la logica del “patto verde” europeo, impone agli agricoltori una serie di divieti e richieste di terreno da non coltivare: tali misure hanno il torto di essere uguali per tutti, in un continente che si estende dalle terre di Babbo Natale fino a quelle torride che lambiscono il Marocco. Molto più efficace può invece essere la fissazione di pochi, chiari obiettivi che siano compatibili con la sostenibilità economica e ambientale del settore. Pochi “target” da definire con le imprese e le istituzioni di una certa area (le province italiane erano, forse, la taglia giusta) dai quali far dipendere (proprio come per il Pnrr) l’erogazione di finanziamenti che accompagnino la trasformazione ambiziosa che l’Europa deve darsi come missione.

L’agricoltura è stata finora lo specchio più fedele di un tratto che ha definito l’Europa: una negoziazione infinita per tirare da una parte - il Nord Europa – o dall’altra – la Francia (è il primo beneficiario, con l’Italia al quarto posto - una coperta troppo corta). Siamo da tempo in un secolo che ci chiede di abbandonare stereotipi vecchi e accorgerci che sono in agricoltura (così come nel turismo) alcune delle opportunità per conquistare la leadership in un secolo cominciato ventiquattro anni fa.

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