Liguria, un romanzo penale di politica e interessi

di Ferdinando Adornato
Mercoledì 8 Maggio 2024, 23:07 - Ultimo agg. 9 Maggio, 06:00
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L’Italia, si sa, oscilla da sempre tra la Grande Indignazione contro la politica e ripetuti fenomeni di complicità verso il potere. Difficile che il pendolo del rapporto tra popolo e istituzioni si fermi in una posizione di equilibrio favorendo, come sarebbe doveroso, l’esercizio del ragionamento e, ancor di più, del dubbio. Prendiamo il caso che ha coinvolto Giovanni Toti. Ovviamente esso ci ha fatto rientrare a pieno titolo nel capitolo della Grande Indignazione. E, more solito, si sono immediatamente formati i due classici partiti: da una parte quello giustizialista e dall’altro quello garantista, l’un contro l’altro armati.

In questo clima ragionare, come si diceva, risulta quasi proibitivo. Eppure ci sarebbero almeno due ordini di riflessioni che un’opinione pubblica matura dovrebbe cercare di affrontare. La prima: è certamente ipocrita pensare che la politica (di partito o personale che sia) non abbia un costo e che, dunque, non necessiti di finanziamenti. In Italia, com’è noto, in virtù di questa riconosciuta necessità, era previsto un meccanismo di finanziamento pubblico dei partiti. Nel 2013, come esito finale della prima Grande Indignazione seguita all’esplosione di Mani Pulite, esso venne completamente abolito. Ma solo per questo la politica ha cessato di aver bisogno di fondi? Certo che no. Ecco che allora sarebbe importante che un qualche rappresentante degli Indignati, magari proprio di fronte al caso Toti (o ai precedenti casi pugliesi e piemontesi) trovasse il coraggio di dire: “signori, ci siamo sbagliati”, forse è meglio che l’Italia ripristini il sistema di finanziamento pubblico. Scommettiamo che nessuno lo farà. E’ troppo comodo infatti abbandonarsi alle invettive contro gli avversari piuttosto che ragionare con coraggio sugli errori passati e sulle soluzioni da trovare. La retorica contro il finanziamento pubblico dei partiti è stata talmente dominante da smentire persino la profezia di Sofocle: “nessuna menzogna arriva a invecchiare nel tempo”.

Ma giriamo pagina. Se non c’è il finanziamento pubblico (e la politica ha bisogno di soldi per esistere) cosa rimane? La risposta è una sola: il finanziamento privato. Del resto, negli Stati Uniti è questa l’unica forma prevista e per cifre incomparabilmente superiori a quelle cui in genere si parla in Italia. Poniamoci allora la domanda più importante e più imbarazzante: perché un privato dovrebbe finanziare un partito o un leader istituzionale? Ci sono solo due ragioni possibili: per condivisione di valori e programmi oppure perché valuta di poter contare sul favore dei suoi beneficiati. Oppure per entrambe. E’ inutile essere ipocriti. La parola “interesse” non è una parolaccia, e accanto alla parola “valori”, crea il combinato disposto di cui si nutre la politica, ogni politica.

Di più: di cui si nutre ogni società libera. Da questo punto di vista ci sono solo due aspetti da verificare. La prima è se il finanziamento privato si sia svolto in modo regolare, seguendo i previsti criteri di trasparenza. La seconda è se i “favori” eventualmente dispensati dalla politica (appalti o concessioni che siano) abbiano o meno ignorato le leggi in materia. Se anche una sola di queste violazioni sussiste, la magistratura deve svolgere indisturbata il suo compito. In caso contrario non si vede quale processo si possa intentare contro un “legale” finanziamento privato. A meno che non si consideri ogni connubio tra un privato e la politica di per sé un fatto illecito. Ed è forse proprio questo il retro-pensiero degli Indignati. Cosa che, al contrario, negli Stati Uniti nessuno si sogna di immaginare.

A ben vedere, però il problema italiano è ancora più grande. Il fatto è che la cosiddetta “rivoluzione giudiziaria” (espressione che in realtà è un ossimoro) degli anni Novanta ha finito per determinare una errata percezione storica: la riduzione della crisi italiana al conflitto legalità-illegalità. Relegando sullo sfondo i veri motivi della mancata modernità italiana: la tenuta stessa dell’unità nazionale, l'assetto anacronistico dello Stato e del governo, un patto sociale ormai invecchiato tra categorie e generazioni. E' molto importante sgombrare il campo da questo equivoco, non già per abbassare la guardia contro la corruzione, ma perché è proprio a partire da esso che si è determinata nel nostro Paese la cristallizzazione di due "partiti" che ingabbiano il discorso pubblico sulla giustizia dentro uno schema premoderno: il presunto conflitto tra il partito dei giudici (legalità) e quello del potere (illegalità).

Se l'Italia resterà prigioniera di questa caricatura essa non diventerà mai una nazione civile. Il problema di una democrazia, infatti, non è se al suo interno esista o no corruzione (dato che l'"uomo buono" è un'utopia) ma quali meccanismi concreti essa preveda in direzione della trasparenza. Da questo punto di vista né l’indignazione né l’acquiescenza verso il potere ci saranno mai d’aiuto. In altri termini: in assenza di violazioni esplicite della legge non può essere il diritto penale a governare questa materia. Se il rapporto finanziamento privato-politica avrà prodotto nei territori crescita e sviluppo o, viceversa, sprechi di denaro e degrado tocca soltanto agli elettori deciderlo.

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