Quel Sud sfiduciato che sa solo recriminare

di Corrado Ocone
Giovedì 18 Ottobre 2018, 08:00 - Ultimo agg. 10:35
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Anche se nei commenti sulle elezioni del 4 marzo scorso non si è molto insistito su questo aspetto, è innegabile che il voto ci ha consegnato un’Italia politica spaccata in due anche geograficamente . È come se l’unione fra diversi che ha poi portato, attraverso l’elaborazione di un «contratto», alla formazione del governo sia anche e forse soprattutto l’unione fra un Nord assillato dai problemi della sicurezza e un Sud orfano di politiche assistenzialistiche che rimpiange e che vorrebbe riportare in auge. Vista da questa prospettiva la questione, si può dire che gli elettori meridionali hanno compiuto una precisa scelta: a favore del meridionalismo della recriminazione e della rivendicazione contro il sogno meridionalistico laico e liberale di un Sud agganciato all’Europa e all’Occidente.

In verità il meridionalismo liberale classico aveva una visione articolata dello sviluppo meridionale, che si sarebbe in qualche modo servito dello Stato imprenditore per poterne poi fare a meno quando le forze di sviluppo autonome, imprenditoriali e civili, avessero preso consistenza e forza. Pia illusione! Col tempo politiche virtuose che furono indubbiamente messe in atto agli albori da istituti come la Cassa del Mezzogiorno, sotto l’impulso di uomini come Pasquale Saraceno e Donato Minichella, e con l’appoggio di intellettuali come Francesco Compagna, degenerarono in seguito in macchine di erogazione clientelare di risorse.

E la società civile meridionale non ha mai maturato quello spirito civile e di autonomia che solamente poteva fare da combustibile per agganciare il Sud alle realtà avanzate. Qualcosa non ha funzionato, o forse non poteva funzionare stante l’impostazione razionalistica e progettualistica che era alla base della scommessa meridionalistica e che era il portato dopotutto di una visione illuministica. Sarebbe stato forse più opportuno partire dal basso, secondo le indicazioni di Gaetano Salvemini o don Luigi Sturzo, radicando nelle realtà concrete ogni progetto di sviluppo e limitando al massimo l’intervento dello Stato e la burocratizzazione della gestione delle risorse. Oggi è forse troppo tardi: più che rancorosa, la società meridionale sembra sfiduciata. Aspetta ancora, come un tempo, che qualcuno la aiuti da fuori, ma più per disperazione che per convinzione: ha perso completamente fiducia nelle sue forze. Il Sud è senza speranza di salvezza? Dove può trovare le forze per rinascere? C’è ancora, più radicalmente, qualche possibilità di rinascita? Sono domande che, in vario modo, ci si pone almeno dall’Unita d’Italia, ma che oggi non sembrano avere risposte convincenti a portata di mano, quasi come se il destino del Sud fosse fatalisticamente segnato. Eppure, a me sembra che la rinascita se mai ci sarà non possa avvenire che a livello endogeno, da una parte, e nazionale, dall’altra. Si tratta, dal primo punto di vista, di sperare nella nascita diffusa, nella società civile e nelle classi dirigenti, della consapevolezza che il Sud deve farcela da solo, che nessuno può aiutarlo, men che meno un rinato e improbabile Stato imprenditore, se non altro perché le risorse di un tempo non sono più disponibili. 

Le stesse ricette pentastellate, per quanto forti possano essere, sono un pannicello caldo: servono temporaneamente a moderare certi effetti della crisi economica ma non si propongono minimamente di contribuire a risolvere in positivo i problemi del lavoro e della povertà. Dall’altro punto di vista, non è dubbio che la questione meridionale, come la si chiamava un tempo, si inserisce nella più generale crisi dello Stato, che non solo non riesce a far rispettare fino in fondo la legalità sul suo territorio ma che, con la sua anchilosata complessità burocratica, pone una serie di ostacoli burocratici alla realizzazione di ogni idea imprenditoriale o in genere alla volontà di cambiamento. D’altronde, gli stessi investitori esteri, che pure ci sarebbero come insegnano altri casi simili al nostro Sud, si tengono ben lontani dagli insicuri (da ogni punto di vista) lidi italici. In uno Stato funzionante e non invasivo al tempo stesso, forte nel far rispettare la legge ma attento a non castrare gli spiriti vitali che pure emergono ogni tanto nella società meridionale, gli spazi di manovra sarebbero forse maggiori. Ed è questo che allo Stato noi meridionali dobbiamo chiedere, non una solidarietà a priori che finisce sempre, non solo da queste parti, in corruzione e improduttivo assistenzialismo.
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