Di Bella, da cardillo a diavullillo

Francesco Di Bella fotografato da Riccardo Piccirillo
Francesco Di Bella fotografato da Riccardo Piccirillo
di Federico Vacalebre
Lunedì 22 Ottobre 2018, 15:11 - Ultimo agg. 16:37
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Quando - era il 1995 - Francesco Di Bella si rivelò, in mezzo al can can di uno dei tanti rock contest del periodo, con i suoi 24 Grana, e un brano come «Regina», meritò subito l’appellativo di «cardillo addolorato»: il suo era un canto giovane, eppure straordinariamente antico, il sound del gruppo era figlio della stagione Almamegretta-99 Posse, eppure innervato di melodie veraci quanto delicate.

Annamaria Ortese c’entrava, e c’entra, poco, ma la voce di dentro di Di Bella a volte sembrava davvero evocare il volo impossibile e disperato di un uccello costretto in gabbia, le parole che le affidava non a caso avevano spesso cercato la prospettiva del carcerato, del prigioniero: politico, d’amore e di se stesso.

Il cardillo da qualche tempo - 2013 - è volato via dai 24 Grana, mettendo la parola fine alla storia di una delle band napoletane più emozionanti e importanti vissute a cavallo tra la fine di un millennio e l’inizio di un altro.

Dopo l’assaggio di «Ballads cafè», quasi un riassunto del percorso compiuto (2014), e «Nuova Gianturco», quasi un ritorno nella periferia dei centri sociali dei suoi esordi, nella Napoli che il mare non bagna, nella città che non vede il gentrifincante boom neoturistico, ecco allora Francesco alla prova che o la va o la spacca, «’O diavolo» (La Canzonetta records), il suo terzo album solista, in uscita giovedì prossimo, il 25, quando è in programma anche il primo degli showcase pomeridiani programmati: si gioca in casa, a Napoli, in Fonoteca, ci vediamo lì.

Con un songwriting sofficemente perverso, il cardillo addolorato diventa diavulillo scuntroso, ammorbidisce il suo dialetto oscuro nel narrare il mestiere di vivere, passando dalla simpatia per il demonio a «Scinne ambresso», piccola storia quotidiana scandita, come un po’ tutto il disco, dalle corde di Alfonso Bruno e dalle tastiere vintage di Andrea Pesce, che è anche il produttore del lavoro. Forse mai come oggi disposto a riconoscere il valore di una melodia, Di Bella insegue una «Stella nera», come «’nu piezzo ‘e core», una «Rivelazione» come una spiegazione del concetto rastafari di «I and I», «Il giardino nascosto» come un altro paradiso possibile anzi impossibile.

«’O diavolo» è un disco riflessivo, mai frenetico, cantabile, melanconico come l’incontro tra gli Alunni del Sole e Nick Drake, anzi forse tra Paolo Morelli e Bim Sherman, visto che alla Giamaica ammicca anche «Rub a dub style» e alla tradizione napoletana più importante riporta «Canzone ‘e carcerate», argomento come detto già frequentato da Di Bella, e ora ispirato da uno spunto nientepopòdimeno di Ferdinando Russo.

Poi nel disco si fa notte, una «Notte senza luna», in cui ci si può raccontare di un misterioso omicidio e di una vita senza speranza, come nelle più classiche murder ballads che hanno unito Johnny Cash a Nick Cave. E quanto il colore del mondo ci sembra «cchiù black d’’a midnight» con «Sulo pe’ te» ‘o diavullillo scuntruso incita a rifugiarci nei sogni, quasi fossero l’ultimo rifugio possibile. Un diavolo sognatore e non solo tentatore? Un angelo caduto in volo e punito per aver scelto di puntare le sue ali verso la terra piuttosto che verso il cielo? Chissà, come cantava Mick Jagger «spero che indovinerete il mio nome/ ma ciò che vi imbarazza/ è la natura del mio gioco». Un gioco dolcemente diabolico.
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