Trent'anni fa la monetina di Alemao:
«Ma non fu scudetto delle 100 lire»

Trent'anni fa la monetina di Alemao: «Ma non fu scudetto delle 100 lire»
di Pino Taormina
Venerdì 3 Aprile 2020, 08:00 - Ultimo agg. 14:02
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Le più famose 100 lire della storia del calcio italiano compiono 30 anni. «Non sopporto quella monetina, quasi mi ricordano solo per quello in Italia. Non feci nessuna scena, non finsi, mi colpì in pieno in testa e rimediai un taglio. Rimasi a bordo campo dolorante. Bigon mi sostituì dopo pochi istanti, decise il medico che dovevo uscire, non io. Rifarei ogni cosa, non feci sceneggiate. Il Milan non ha mai mandato giù quello scudetto perso, ma è solo un alibi quel 2-0 a tavolino con l'Atalanta. Non lo persero per quella gara». Era l'8 aprile del 1990, la domenica delle Palme. Alemao ricorda ogni istante di quel giorno. E anche di quelli dopo.

Alemao, Gullit e Van Basten si lamentano ancora e parlano di imboscata.
«Accettare una sconfitta non è mai semplice neppure dopo 30 anni. Era ancora tutto da giocare il destino del campionato anche dopo Bergamo. Loro a Bologna cosa fecero quella domenica? 0-0 e con il gol di Marronaro che l'arbitro non vide. E quella che cosa fu? E poi a Verona persero la testa quando vincevano per 1-0. Ricordano solo quello che vogliono, ma la verità è che lo scudetto lo vinse la squadra più forte».

Iniziamo dal principio: è l'estate di Maradona che sogna il Marsiglia.
«Anche io e Careca non andammo in ritiro. Eravamo con il Brasile per la Coppa America e per le qualificazioni a Italia 90. Venne Ferlaino a trovarci in Sudamerica e ci disse che mai avrebbe venduto Diego. Tornai solo dopo che si erano giocate tre partite, a Verona. Ma da titolare il mio esordio fu con la Fiorentina al San Paolo: dopo 45' eravamo sotto 2-0, entrò Maradona e sbagliò un rigore. Sembrava finita, ma rimontammo 3-2. Quel giorno avemmo al certezza di essere un gruppo molto solido».

Come arrivò a quel campionato?
«Ero infastidito da alcune voci che mi volevano al Genoa. Non capivo. Avevo vissuto un anno drammatico, perché per una Epatite B a Napoli ho rischiato di morire. Venni ricoverato con urgenza e in quei giorni al Policlinico, travolto dall'amore dei tifosi, promisi che avrei fatto di tutto per regalare una vittoria. E rientrai dopo tre mesi, in tempo per la cavalcata finale della Coppa Uefa, con il mio gol a Stoccarda».

Il campionato 89/90 fu a lungo un dominio degli azzurri.
«Non brillavamo ma vincevamo sempre. Io e tutti gli altri avevamo il compito di sacrificarci per quei tre là davanti, Careca, Maradona e Carnevale. Sapevamo che dovevamo correre su e giù anche per loro e dargli la palla. E ne valeva la pena. Poi però iniziammo a frenare a fine inverno e nello scontro diretto a San Siro con il Milan perdemmo nettamente per 3-0. Fu una mazzata, un duro colpo, perché ci raggiunsero al primo posto. Per qualche giorno perdemmo coraggio e allegria. Tememmo di perdere lo scudetto. E qualcuno tremava pensando alla beffa di due anni prima. Anche perché poi fummo sconfitti anche dall'Inter».

Che cosa scattò in voi?
«L'orgoglio, perché eravamo noi contro tutti. C'era in noi la sensazione di avere tutta l'Italia contro. È una cosa complicata da spiegare, ma eravamo davvero da soli contro tutto il Nord. Ogni gara che giocavamo lontano dal San Paolo venivamo accolti come dei nemici, con striscioni di insulti, cori razzisti, sentivamo come ci fosse un clima di odio. E questo ci aiutò moltissimo a superare i momenti di difficoltà, perché l'orgoglio scattava ogni volta. Sembra una parola esagerata, ma sembrava una guerra contro il Napoli».

Maradona divenne il simbolo di questa rivalità.
«E al Mondiale ne pagò il prezzo. Ma anche noi pagammo il prezzo dell'amicizia con lui: dopo Brasile-Argentina ci fu qualche dirigente della nostra federazione che ci accusò di essere stati teneri con Diego e per questo eravamo stati eliminati. Colpimmo tre pali in quella partita a Torino e ci punì solo un gol di Caniggia».

Torniamo a quella splendida cavalcata del 90.
«Dopo Bergamo tutti si scatenarono contro il Napoli e contro di me. Ma questo ci aiutò a trovare compattezza e non ci fermammo più: la domenica decisiva andammo a Bologna e io feci uno dei 4 gol. Più di mezzo stadio era azzurro, ricordo i cori delle curve e i boati ogni volta che a Verona succedeva qualcosa. Con la Lazio fu solo una formalità».

Cosa è stato decisivo, Maradona a parte?
«L'intelligenza e la serenità di Bigon sono state fondamentali nel gestire quel gruppo. Non era facile prendere il posto di Bianchi e i problemi da affrontare erano molti. Ma alla fine, alla sua maniera, Bigon ti portava sempre dove voleva lui. Ma quello fu lo scudetto di chi stringeva i denti per far fare gol a quel trio stupendo, penso a Crippa, Francini, De Napoli, Ferrara».

Il tempo vola via. La tempesta coronavirus in Brasile?
«Sono a Lavras e la situazione non è tranquilla. Andiamo in giro con la mascherina e tra mille paure. Spero che passi presto». 
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