Cori razzisti, stop tardivo:
serve un vero giro di vite

Cori razzisti, stop tardivo: serve un vero giro di vite
di ​Marilicia Salvia
Lunedì 14 Maggio 2018, 00:18 - Ultimo agg. 07:07
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Ma è normale quello che abbiamo visto ieri? È logico che il presidente di una squadra di calcio debba correre sotto la pioggia battente, e attraversare il campo fin sotto la curva, per placare i propri sostenitori infuriati non per una qualunque azione di gioco - che pure sarebbe già troppo - ma per ragioni inconsulte, irrazionali, anzi ignoranti? È ancora sport quello che richiama sugli spalti una folla disinteressata alle giocate, ai gesti atletici, all’impresa dei propri beniamini, ed è invece vogliosa solo di sfogare istinti insultando gli avversari, anzi peggio: la città degli avversari? Non è normale certo, e non è logico. Ma soprattutto non è accettabile. 

Ed è avvilente che si sia dovuti arrivare alla fine del campionato, a una partita che non serviva più a niente se non a confermare un secondo posto che - dal punto di vista sportivo - grida vendetta, perché il tema dell’odio razziale che perseguita il Napoli ad ogni sua gara in trasferta divenisse tema non soltanto per stampa e tifoseria azzurra ma per l’intero mondo del calcio italiano. Odio razziale, sì. Non folclore, non dileggio. Disprezzo. Cori che inneggiano al Vesuvio che ci deve lavare tutti, parole violente, insulti irripetibili. Quegli insulti che, all’arrivo del bus dei nostri calciatori a Torino per la partita contro la Juventus, spinse Sarri al famoso gesto del dito alzato: gesto che, inevitabilmente, i salotti buoni del pallone televisivo condannarono con disgusto. «Se attaccano il mio popolo, io reagisco», spiegò allora il mister. Che ieri a Marassi è stato più svelto degli altri a capire che la misura era colma. E ha chiesto l’intervento dell’arbitro già nel primo tempo, protestando vistosamente con il quarto uomo a bordo campo. Poi è successo quello che tutti hanno visto: Milik che segna, i tifosi (?) sampdoriani che scandiscono i loro cori vergognosi a voce sempre più alta, e la decisione dell’arbitro - finalmente - di fermare il gioco.
 
Fosse successo più spesso, o anche soltanto qualche volta in più. Invece si è lasciato, partita dopo partita, che il «divertimento» dei barbari delle curve continuasse, che le loro frustrazioni trovassero ancora e sempre sfogo. Mentre, di pari passo, i napoletani imparavano a lasciar perdere, a prenderla con indifferenza. Gli stessi napoletani ai quali si impedisce di andare in trasferta, a seguire la propria squadra, a sostenerla come merita, e come è giusto che sia.

I lunghi minuti di follia del Marassi hanno messo la sordina a tutto il resto, alla vittoria rotonda con la quale il Napoli ha onorato l’ultimo impegno in trasferta. Una squadra che, anche in assenza di motivazioni importanti, e di fronte a una classifica ormai inchiodata, ha regalato agli spettatori uno signor spettacolo: un compendio delle giocate di un anno intero, pagine in tre D del manuale del buon calciatore. Ma sugli spalti, ai tifosi (?) sampdoriani non importava niente di questa squadra che corre, diverte, impegna tutti gli avversari che, a loro volta, si impegnano al massimo per fermarla. È un onore giocare contro il Napoli, contro questo Napol: per chi lo batte e per chi ne viene sconfitto. Ma sugli spalti è un altro il linguaggio che viene inteso. Ed è un altro il linguaggio che occorre adoperare. Da ieri, da domenica prossima, dal fischio d’inizio dei campionati che verranno. Chiudere le curve, togliere punti alle squadre che non sanno contenere il loro tifo violento, dare la vittoria a tavolino alla squadra offesa? Non tocca a noi stabilirlo. Noi possiamo solo dire che ieri, nel calcio italiano, si è spezzato qualcosa. E che sanare la frattura non è solo interesse del Napoli, di Napoli o dei napoletani. Occorre scegliere, una volta per tutte, se il calcio è ancora sport o una sporca battaglia.
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