Napoli, la cura di Ancelotti:
ironia e tattica del buon senso

Napoli, la cura di Ancelotti: ironia e tattica del buon senso
di Pino Taormina
Lunedì 20 Agosto 2018, 08:30
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L'ancelottizzazione del Napoli, in fondo, non è così complicata. È arrivato al Real raccogliendo il testimone da Mourinho, è arrivato al Bayern prendendo per mano gli orfani del padre fondatore del tiki-taka, Guardiola: che volete che sia, per Carletto mettersi alle spalle Maurizio Sarri? Lo sta facendo in punta di piedi, senza proclami o azzardi. Con la Lazio si è affidato al blocco azzurro degli ultimi anni, con pochissimi ritocchi e poggiando quasi per intero il suo gioco sulle vecchie idee e sul 4-3-3. Lui non deve dimostrare niente a nessuno e sa che c'è tempo per imporre il suo pensiero. E che prima o poi lo farà: «Devo migliorare le cose buone fatte dal mio predecessore - dice - e se non sono rimasto a casa è perché penso che si possa fare».

Per spiegare il primo Napoli di Ancelotti visto all'Olimpico è sufficiente una solo concetto: buon senso. Il suo modulo di riferimento è stato quello con cui la squadra ha giocato negli ultimi tre anni. Nessuna rivoluzione, cose semplici e fiducia nei singoli: è la saggezza che gli deriva dall'esperienza di chi ha navigato in mari di ogni tipo. Contro l'entusiasmo della Lazio, ha contrapposto un calcio semplice. Per lui è valsa la regola dell'incudine e del martello: ha fatto aspettare il Napoli con pazienza (che non significa con rassegnazione) e ha poi attaccato con coraggio.

Prendendo in pugno la gara. Del possesso finale, a lui, non importa nulla. È stato un caso. 61% a 39%. Non perderà un solo secondo su questo dato, che per lui conta zero.
 
A Insigne ha detto: «Fai quello che sai fare». A Koulibaly, Albiol e Rui ha spiegato: «Non ho mai visto tre difensori abboccare a una finta tutti assieme, avrei voluto ammazzarli ma sono troppo grossi per farlo...». Questo suo modo di fare se lo porta dietro da quando era un centrocampista e continua a essere la guida del suo pensiero. Due i maestri: Nils Liedholm e Arrigo Sacchi. Dal Barone ha appreso l'importanza del dialogo con i giocatori, oltre che la capacità di sdrammatizzare i momenti più delicati: un sorriso a volte vale più di una sgridata. Da Sacchi, invece, ha imparato la cultura del lavoro e la cura dei particolari. Ed è quello che ha fatto dopo le sberle prese in amichevole prima con il Liverpool e poi con il Wolfsburg. Senza lanciare allarmi, ha parlato alla squadra dicendo che sapeva quanto erano bravi. E questo ha dato forza e coraggio al gruppo.

Ancelotti è abituato alle sfide. E quella del Napoli lo è. Il destino per lui è qualcosa che si costruisce giorno dopo giorno. D'altronde, prima della notte del 28 maggio 2003, Carletto era «un perdente di successo» oppure «un eterno secondo». Poi Shevchenko è andato sul dischetto e ha spiazzato Buffon, il Milan ha alzato la Champions, e lui è diventato un simbolo di successo. Se in Italia è sempre stato soltanto Carletto, a Londra lo hanno ribattezzato King Charles, a Parigi Carlo Magno e a Madrid lo hanno definito Il Pacificatore.

È stato bollato come un aziendalista anche perché ha assecondato pubblicamente tutte le scelte di mercato di De Laurentiis. Il suo carattere, morbido e severo allo stesso tempo, gli ha consentito di navigare, senza naufragare, in mari tempestosi. Da Tanzi ad Agnelli, da Berlusconi ad Abramovich, dagli sceicchi del Psg a Florentino Perez non è stata una crociera rilassante la sua. Non ha mai detto una parola contro i suoi ex datori di lavoro. Questione di rispetto. Sabato sera c'è il Milan ovvero gran parte del suo passato. È l'esordio al San Paolo. Difficilmente cambierà formazione: il buon senso prevede questo.
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