Morta Giovanna Marini, voce colta ma popolare

Scomparsa a 87 anni, ha studiato, divulgato e rinnovato i suoni folk di un’Italia antagonista

Giovanna Marini
Giovanna Marini
Federico Vacalebredi Federico Vacalebre
Venerdì 10 Maggio 2024, 07:00 - Ultimo agg. 11 Maggio, 09:37
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Alzati, che sta passando la canzone popolare. Se n’è andata Giovanna Marini, la malattia se l’è portata via a 87 anni. Lei, la ragazza della Roma bene che aveva scelto di cantare in direzione ostinata e contraria. 

Nata il 19/1/1937, figlia del compositore Giovanni Salviucci, diplomata in chitarra a Santa Cecilia prima di specializzarsi con Andres Segovia, negli anni ‘60 era diventata la pasionaria del folk e della canzone a pugno chiuso. L’incontro con Roberto Leydi e Gianni Bosio le aveva fatto scoprire il canto popolare e sociale. A Spoleto, era il 1964, c’era anche lei in scena al Festival dei due mondi in «Bella ciao», spettacolo spartiacque nell’Italietta democrista. Giovanna Daffini, il Duo di Piadena, i Pastori di Orgosolo, il poeta Peppino Marotto divennero suoi complici nella scoperta e nella (re)invenzione di un repertorio lontano dalle canzonette. Sul fronte più politico furono Paolo Pietrangeli (con cui aveva diviso l’inno di «Valle Giulia»), Ivan Della Mea e Gualtiero Bertelli a condividere con lei l’avventura del Nuovo Canzoniere Italiano. Poi, venne Dario Fo e un allestimento ancor più radicale come «Ci ragiono e canto», che le diede la spinta per ballate capaci di fondere la musica colta con quella popolare, la musica delle classi dominanti con quella delle classi dominate (tifando per queste ultime, si intende). Con brani come «I treni per Reggio Calabria», «Lamento per la morte di Pasolini», «I trentacinque giorni della Fiat» si presentava come una cantastorie, impaginava con originalità compositiva pagine di racconto storico, politico, sociale.

Straordinario il suo lavoro sulle tecniche di vocalità popolare, recuperate sul campo e riproposte in impianti musicali capaci di rinnovarsi senza tentazioni puriste.

La ritualità, il Sud magico, il canto ribelle studiato con Italo Calvino e Diego Carpitella, l’Italia contadina che diventava metropolitana, l’antagonismo sociale: Giovanna cantava con adesione militante, ma senza dimenticare gli studi musicali, senza banalizzare il prodotto di origine popolare in mero slogan. Alla Scuola popolare di musica di Testaccio scoprì la radicalità di musicisti come Eugenio Colombo e Giancarlo Schiaffini.

Impegnata al cinema (diretta da Maselli, Loy, Mattolini, Paolo Pietrangeli) ed in teatro (musicando Pasolini e mettendo in scena «Le troiane»), si era trovata (ri)scoperta dai giovani nel 2002 grazie a «Il fischio del vapore», disco di canti sociali e politici divisi con Francesco De Gregori.

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Neomadrigalista, in cattedra a Parigi dove la trattavano come una star più che in Italia, ha tenuto insieme una complessa scrittura polifonica con i retaggi della tradizione orale, serietà d’intenti e ironia nel porgere qualsiasi canzoniere, composizioni originali e trascrizioni di canti catturati inseguendo una processione sui monti di Caltanissetta o una festa dei rom d’Italia: «Non si può rimpiangere il sound di una volta, ma la canzone popolare, le melodie contadine, i canti di lavoro sono sopravvissuti alla civiltà industriale», spiegava.

Ciao, Giovanna, ciao, e grazie di tutto. 

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