Gli inizi seguendo le orme del padre, Orazio Carratelli, capo della redazione napoletana del Giornale d'Italia. Talento purissimo, Mimmo Carratelli avrebbe subito preso la sua strada. Una vita da cronista, con quelle capacità di approfondimento e scrittura che ne hanno fatto un protagonista del giornalismo sportivo nazionale. «Che cosa significa scrivere da giornalista? Occorre avere un modello, come stile di scrittura, che sia un giornalista, uno scrittore, un letterato, leggerlo molto e approfondire la sua tecnica. Poi evitare di essere banali, scontati, escludere le frasi fatte, avere un inizio di pezzo che catturi subito il lettore, esporre una scrittura serrata, giornalistica, che è diversa dallo scrivere correttamente in italiano e, come in un film, avere il colpo finale ad effetto. Bisogna lavorarci molto. Poi se ti aiuta un po' di qualità si può riuscire», il suggerimento dato ai giovani colleghi in un'intervista al Roma.
Tanto tempo è passato dai primi resoconti di Carratelli sul consiglio comunale di Napoli per il Giornale d'Italia. Fine anni Cinquanta, Achille Lauro era il sindaco e il patron del Napoli.
Mimmo ha vissuto tante storie di sport, anche drammatiche, come l'assalto del commando palestinese nel villaggio olimpico di Monaco nel 72, tragedia descritta nel libro che gli valse il Premio Ussi. Ha raccontato i più grandi, è stato amico di decine di calciatori e allenatori del Napoli. Amico sincero, non occasionale, anche perché - da perfetto cronista - ha sempre saputo che i personaggi non si scoprono in una fugace intervista ma condividendo un caffé o una sigaretta, giocando una partita a carte. Accanto a Pesaola, quando il mitico Petisso spirò in una stanza del Fatebenefratelli il 29 maggio di nove anni fa, c'era lui. Carratelli è titolare di un archivio invidiabile ma non vive di ricordi. Il suo è un aggiornamento continuo. Si è appassionato anche al padel grazie a sua figlia Lula. Vive Napoli, ne ascolta le voci e ne sonda gli umori. Chi ha la sua esperienza, quasi non avverte il bisogno di recarsi a una conferenza stampa o a una partita: gli basta poco per cogliere gli aspetti più importanti, raramente sbagliando opinione.
Lui è partito dal taccuino, dalla penna e dalla macchina per scrivere, quando la redazione era la prima casa per un giornalista. E all'epoca il primo severo giudice di un articolo era il tipografo. Spiegò in quella intervista: «Il tipografo vecchia maniera era il migliore giudice di noi giornalisti. Non essendo nostro collega non poteva essere invidioso. Era imparziale nei giudizi. Componendo molti articoli, alla fine capiva se il pezzo andava bene o meno. E com'era andato il pezzo lo capivamo scendendo in tipografia: se il pezzo andava, i tipografi ci facevano festa, altrimenti era un'assoluta indifferenza». Oggi, al tempo di internet e del pc, l'anima e la passione da cronista di Carratelli sono rimaste intatte.