Bruscolotti e le sfide alla Juventus:
«Era il Sud che voleva il riscatto»

Bruscolotti e le sfide alla Juventus: «Era il Sud che voleva il riscatto»
di Pino Taormina
Sabato 21 Aprile 2018, 14:09
8 Minuti di Lettura
«È stato sempre il Nord contro il Sud: noi meridionali contro il potere e cent’anni di storia vittoriosa. Se riuscivi a batterla, ti sentivi il più grande di tutti. Ogni giorno dell’anno il tifoso ti chiedeva di sconfiggere la Juventus, non pensava ad altro. Poi, arrivò la svolta e capimmo che quello non doveva essere l’unico scopo della stagione. Perché per diventare grandi dovevamo battere tutti, non solo la Juventus. E ci riuscimmo». Il fisico granitico ma un cuore di panna: Giuseppe Bruscolotti ha vissuto 29 duelli tra Napoli e Juventus a cavallo di un’epoca straordinaria, tra il 1972 e il 1987. Aveva 22 anni, capelli ricci e neri, occhi verdi, grandi mascelle (da qui il primo soprannome: “la mascella di Sassano”) quando scese in campo la prima volta al Comunale contro i bianconeri; ne aveva 36 quando invece giocò la più memorabile degli Juve-Napoli, quella che finì 3-1 per gli azzurri. 

Bruscolotti, 511 partite fra campionato e coppe, 387 gare tutte in serie A. Ma le gare con la Juve?
«Per i napoletani e per tutti noi meridionali, la partita era una specie di occasione per una rivalsa sociale: venivano da ogni parte del Nord per fare il tifo per noi. E il bello che anche pugliesi, calabresi erano schierati dalla nostra parte. Non era solo una partita di pallone e e quando eravamo a Torino avevamo il sostegno di migliaia di emigranti».

Per lei, immagino, un armadio pieno zeppo di ricordi.
«Mai una gioia lì, prima della vittoria del novembre del 1987. Riuscimmo quella volta a rompere un tabù che durava da 34 anni. Assurdo. Eppure quando entravi al Comunale capivi che c’era qualcosa di particolare, un clima che all’inizio condizionava».

Anche gli arbitri?
«Beh, se dovevano sbagliare non hanno mai avuto problemi a farlo a favore della Juve non certo del Napoli. Una volta, ero già capitano, intervenni per difendere un arbitro che gli juventini stavano sommergendo di parolacce e insulti solo perché non aveva dato una punizione. Io mi intromisi e dissi di lasciarlo perdere, non permettersi di rivolgersi in quel modo. Non l’avessi mai fatto, l’arbitro mi guardò e disse: “se si interviene ancora la ammonisco. Non si permetta”. Rimasi allibito».

Il suo primo Juve-Napoli è del 17 marzo del ‘73.
«I mostri. Mi trovavo davanti a dei mostri. Io arrivavo da Sorrento, dicevano di me che ero un timido ma ero solo educato. Noi eravamo dei ragazzini, loro facevano paura e per la prima volta giocavano contro due ex come Zoff e Altafini che a Napoli avevano amato tantissimo. Era un sabato ed era un evento allora non giocare di domenica: Capello sbaglia un rigore che gli para Carmignani e noi uscimmo imbattuti. Erano tutti contenti alla fine».

L’anno dopo è la prima stagione con Vinicio. Stava nascendo il Napoli dello spettacolo?
«Sì, a piccoli passi. Stavamo passando da metodi tradizionali e stagnanti come quelli di Chiappella a questo brasiliano che a Napoli era considerato una leggenda e che cominciò a introdurre il gioco all’olandese che cominciava ad andare tanto di moda. Dicevano che noi difendevamo poco, ma io ridevo: facevamo la zona, vero, gli unici in Italia, ma questo non significava che gli attaccanti avversari facevano quello che gli pareva. Però a Torino ci andò male: vinsero 4-1 con due doppiette di Capello e Anastasi. Ma fu un’annata particolare, tutta in salita».

Era stata l’estate del colera?
«Già primi mesi venivamo trattati come davvero come fossimo appestati... e a inizio stagione non trovammo neppure una squadra che volesse giocare con noi. Solo il Genoa ci ospitò e ci regalò anche una medaglietta ricordo col simbolo del grifone. La tengo ancora da parte perché rimasi colpito dalla loro accoglienza».

Ecco, ora le tocca ricordare una delle grandi delusioni della sua carriera: quel 2-1 del 6 aprile del ‘75.
«Sì, perché eravamo certi che saremmo andati a Torino e avremmo vinto. Ricordo lo stadio, una marea azzurra che era arrivata lì sicura che avremmo conquistato lo scudetto. Zoff fece delle parate assurde e poi la rete di Altafini. Proprio i due che erano andati via da Napoli».

Vi arrabbiaste con loro due?
«Noi? No. Erano dei professionisti, non potevamo rimproverare nulla. Ma ricordo lo striscione al San Paolo contro José: «core ‘ngrato». Non glielo hanno mai perdonato quel gol i napoletani. Perché quella era una squadra spumeggiante, divertente».

Infatti, un po’ tutti si ricordano ancora di quel Napoli di Vinicio?
«Sì, ma qui da noi, non certo altrove. Gli altri ricordano solo il nome nell’albo d’oro. Anche noi mica ricordiamo la Fiorentina di Antognoni che arrivò seconda dietro alla Juventus?».

Altro spettro nella memoria: il 5 febbraio del ‘78. 
«In quel Juve-Napoli mi giocai il Mondiale. Io ero pronto per andare in Argentina, tutti dicevano che lo meritavo. Ma Benetti mi mandò ko. Lo fece apposta, non l’ho mai perdonato. Ero a terra, mi camminò sul ginocchio: c’erano le convocazioni per un’amichevole a Napoli, se entravo nel giro della Nazionale non sarei più uscito. Ma il gruppo degli juventini non mi voleva...».

Che disse Benetti per giustificarsi?
«Mi anticiparono che stava venendo nello spogliatoio a chiedermi scusa, io ero steso sul lettino, lo vidi entrare e mi misi in mano una scarpetta con i bulloni: appena iniziò a parlare io provai a colpirlo in faccia. Meno male che si scansò, fece l’unica cosa buona di quel giorno. Avrei passato un guaio. Ma mi fece male con cattiveria, di proposito. Non fu un intervento fortuito».

E lo stile Juventus?
«Ma che c’entra? Lo stile della Juve era impersonificato dall’Avvocato. Una figura unica, per eleganza, modi di fare: all’epoca si faceva riscaldamento giù negli stadi e lui passava sempre a fare un saluto. Mai una parola fuori posto, sempre un apprezzamento e un “in bocca al lupo”. Prima del nostro successo per 3-1 lui aveva previsto tutto. Nel salutarmi e darmi la mano mi disse: “Sono sicuro che questo è l’anno giusto per voi”».

Chissà come si sarebbe trovato a ricevere le sue telefonate alle 6 del mattino...
«Era una sua abitudine, svegliava tutti a quell’ora. A me solo uno mi chiamava così presto: era il ds dell’Udinese Dal Cin. Mi martellava, mi voleva al fianco di Zico. Io però una volta gli risposi male... perché mica a quell’ora si può svegliare la gente».

Ma lei alla Juve ci sarebbe andato?
«Mica noi potevamo dire di no... allora decidevano solo le società. E basta. Noi eravamo solo delle pedine. In realtà soltanto alla Roma sarei potuto andare, nell’estate del 1976: era tutto fatto, solo che loro si impressionarono per una calcificazione alla caviglia e non mi presero più. Meno male...».

C’è stato un momento in cui il Napoli come organizzazione si è avvicinato alla Juve?
«Quando è arrivato Italo Allodi. In quel momento ci siamo sentiti forti, fortissimi. Un manager che ha fatto fare un salto in avanti al club senza precedenti».

Andiamo avanti: arriviamo al duello con in campo Krol, Pellegrini, Brady del 1981.
«Eravamo ancora in pieno dopo-terremoto, perché a Torino andammo un paio di mesi dopo la scossa del 23 novembre. In molti erano terrorizzati, ma i problemi della città ci diedero la forza di dare il meglio di noi stessi: sapevamo che la partita di calcio era un momento di grande distrazione per tutti. Pareggiammo 1-1... ma non ricordo chi fece gol. Damiani?

Eh no. Pellegrini.
«Vero, pronti via passammo in vantaggio, Claudio era un fulmine in contropiede. Anche quella volta lo scudetto ce lo giocammo in uno scontro diretto al San Paolo e loro vinsero con un autogol di Guidetti. Ma facemmo una cavalcata che è ancora nei cuori di tutti».

Iniziarono allora i cori sui terremotati?
«Ma mai a Torino, mai nelle gare con la Juventus. Io sono sorpreso da questo razzismo dei tifosi juventini. Noi venivamo insultati in quanto meridionali, ma solo a Brescia, Verona e Bergamo. Mai nelle gare di Torino. E neppure a Bologna dove ai miei tempi era una festa giocare».

Alla fine del 1982 si ferma per tre mesi.
«Presi l’epatite virale, stetti malissimo e rimasi fermo per tre mesi. Il Napoli era sul fondo della classifica e doveva giocare fuori contro la Sampdoria. Pesaola, il giorno prima della partita di Marassi mi disse di andare con loro a Genova. Io mi opposi: “E che vengo a fare? Soffro a venire e non giocare”. E lui disse che era per stare insieme. La mattina, nel giardino dell’hotel a Nervi, mi prese da parte: “Se la sente, solo venti minuti”. Gli risi in faccia ma accettai. Solo che non giocai 20 minuti, ma 70 minuti. Era un furbo unico il Petisso».

Riuscì però a settembre a giocare contro la Juve?
«Sì, era il blocco dei campioni del mondo, gente che tutta Italia considerava degli eroi. E aveva anche ragione. Pure noi eravamo ammirati, l’impresa di Madrid resta nella storia del nostro calcio. Perdemmo e segnò Paolo Rossi».

Che marcava lei?
«No, Ferrario. Moreno lo ha sempre sofferto Pablito...».

Arriviamo agli anni di Maradona. Perdete con la Juve e andate in ritiro a Vietri?
«Già, era il duello con Platini, uno dei più grandi talenti che ha indossato la maglia della Juventus. Lo marcavo io e Marchesi ci diceva che anche fare fallo al limite dell’area era pericoloso. Aveva ragione. Perdiamo 2-0 e andiamo in ritiro. Diego è perplesso. Non viene. “Ma cosa è un ritiro? E io come passo il mio tempo in albergo?”. E infatti non venne. Si presentò con calma solo il venerdì prima della gara con l’Udinese. Solo perché avevo insistito io. “Dai - gli dissi - che ti cambia se viene un giorno prima?”»

La vittoria sul campo della Juve il 9 novembre del 1986 fu il suggello alla vostra amicizia? 
«Mi promise che mi avrebbe fatto vincere lo scudetto. E ha mantenuto la promessa. Con lui sono stato sempre sincero: “Tu sei il più bravo del mondo, ma io sono il capitano del Napoli. Io sarò sempre un amico per te. Presto chiuderò con il calcio e voglio essere campione d’Italia”. Dopo quel 3-1 mi disse: “vedi, sto mantenendo la promessa”. Tutti noi prima di quella vittoria sapevamo il nostro valore. E nella mia mente ci sono le urla tra il primo e il secondo tempo in cui ci caricavamo a vicenda. Vincere a Torino, nel mio ultimo Juve-Napoli, è stato il coronamento di un sogno». 

Il giocatore che ha ammirato di più tra gli juventini?
«Senza dubbio, Scirea. All’occorrenza anche uno che non tirava la gamba se era necessario ma un grande signore. Un difensore elegante e tecnicamente superiore a tutti».

E tra quelli che ha marcato?
«Mi piaceva incrociare Bettega. Le prendeva e le dava senza lamentarsi più di tanto»
 
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