La lezione di Giulia e dei suoi Caracciolini contro il naufragio dei diseredati nel nuovo romanzo di Ossorio

Con I bambini del Maestrale la scrittrice napoletana ricostruisce la vicenda esemplare della Civita Franceschi e della nave-Asilo Caracciolo, interrotta dal fascismo. Un potente messaggio educativo per le derive violente del presente

Lo spettacolo Mare Mater
Lo spettacolo Mare Mater
di Donatella Trotta
Sabato 24 Giugno 2023, 21:31 - Ultimo agg. 25 Giugno, 18:00
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L’ennesimo brutale episodio di criminalità minorile a Pomigliano induce ad una seria riflessione collettiva su quella drammatica anaffettività che caratterizza i giovani “diseredati”, come li definisce il filosofo ed europarlamentare francese François-Xavier Bellamy in un suo libro, «I diseredati ovvero l’urgenza di trasmettere», appunto, pubblicato anche in Italia da ItacaLibri nel 2016. Un libro generato dallo choc per un altro fatto di sangue con protagonisti adolescenti, avvenuto il 12 marzo 2011 a Parigi dove un ragazzo uccise con violenza efferata e gratuita un suo coetaneo, Samy, solo perché aveva attraversato la linea immaginaria tra due quartieri. L’orrore si consuma a due passi dal liceo dove ha appena iniziato a insegnare il giovane prof Bellamy, che inizia così a interrogarsi sulla rottura inedita, avvenuta nella società occidentale, in cui una generazione ha praticamente rifiutato di trasmettere la propria eredità culturale e di valori, diseredando, di fatto, i più giovani.

E dove fallisce l’educazione, sottolinea Bellamy, si insinua con facilità la barbarie, il nichilismo, l’indifferenza alle vite e al dolore degli altri. Su cosa rifondare allora la didattica e l’educazione, si chiede angosciato il prof, per dare un senso al suo entrare ogni giorno in aula? Scrive Bellamy: «L’emergenza assoluta oggi consiste nel rifondare la trasmissione. Urge riconciliarsi con il significato stesso dell'educazione per far vivere in ognuno la cultura, per mezzo della quale l’uomo diventa umano, la libertà effettiva e un futuro comune possibile». Già.

Queste considerazioni tornano in mente leggendo l’ultimo potente romanzo della napoletana Antonella Ossorio, che ricostruisce una storia vera e paradigmatica da cui imparare tanto, ancora oggi, in questi tempi piuttosto bui. Il libro, «I bambini del Maestrale» (Neri Pozza, pp. 384, € 19), è uscito ed è stato presentato nei giorni scorsi. Costellato sin dal titolo di metafore marinare che scandiscono, a partire dall’incipit di forte impatto emotivo ("Approdo"), una vicenda storica reale, ha per protagonista una innovativa “Maria Montessori made in Naples”, coetanea della Grande Madre della pedagogia italiana, che ha saputo trovare per i bambini napoletani di strada, orfani e scugnizzi dell’epoca giolittiana una efficace “cura dell’acqua salata” riscattandoli da ignoranza, abbandono, miseria e illegalità e restituendo loro il diritto a un futuro dignitoso: con “il mare dentro”, anziché “fuori”, per parafrasare la recente fiction tv. Una donna, moglie e madre che ha incarnato una sorta di laica e visionaria versione femminile antesignana dell’esperienza di Don Vesuvio (alias Mario Borrelli, il prete degli scugnizzi del secondo dopoguerra immortalati nel romanzo di Morris West Figli del sole, pubblicato negli anni ’50): e che, “Capitana” sui generis e direttrice di una singolare scuola a tempo pieno su una piro-corvetta in disuso − donata dopo anni di onorato servizio dalla Marina Militare alla città di Napoli grazie ad una legge speciale del 1911 – realizzò uno dei più originali esperimenti educativi e di comunità del suo tempo (e non solo), apprezzato da pedagogisti di ogni parte del mondo, Giappone compreso.

Stiamo parlando della storia esemplare di Giulia Civita Franceschi (1870-1957) e della Nave-Asilo “Caracciolo”, veliero da lei diretto, ormeggiato al Molosiglio nello specchio d’acqua del primo bacino di carenaggio costruito in Italia dove Giulia viveva con il suo entourage e con i suoi “Caracciolini” (oltre 750, in quindici anni) accolti e istruiti con dolce inflessibilità. Una storia poco nota al grande pubblico, ma di quelle che lasciano il segno. A restituirla ora all’attenzione dei lettori è il talento narrativo di Ossorio, che ricostruisce fedelmente e rigorosamente i fatti reali  adattandoli a una robusta e avvincente trama narrativa diacronica declinata in tre parti (“Salpare”,1913; “Navigare”, 1913-1921 e “Resistere”, 1922-1928) intessuta con rispetto, sensibilità (e credibilità, anche dei personaggi di invenzione). Nei ringraziamenti e crediti finali, l’autrice non fa mistero delle sue fonti, in particolare le ricerche di studiosi come Maria Antonietta Selvaggio: coadiuvata, tra gli altri, da Antonio Mussari, direttore della Fondazione Thetys-Museo del Mare di Napoli che custodisce preziose fonti anche epistolari. Documenti, testimonianze e foto che hanno consentito, dal 2010, di realizzare mostre, pubblicazioni e persino un intenso spettacolo teatrale di Fabio Cocifoglia e Alfonso Postiglione: «Mare Mater» (prodotto da Le Nuvole/Casa del Contemporaneo con la collaborazione artistica di Enzo Musicò e drammaturgica di Antonio Marfella, interpretato da Manuela Mandracchia, Graziano Piazza, Luca Iervolino, Niko Mucci e Giampiero Schiano), che debuttò nel 2016 in una potente versione site-specific proprio al Molo San Vincenzo di Napoli.

Ma Ossorio, ora, va oltre. E con «I bambini del Maestrale» l’autrice, già docente di scuola primaria, poetessa e scrittrice per adulti e ragazzi di notevole finezza stilistica, capace di incastonare nella sua sorvegliata e potente scrittura registri diversi, anche dialettali, con una vivacità e una coralità (con echi di Victor Hugo, Charles Dickens, Matilde Serao) che dona vigore tangibile a personaggi, dialoghi e descrizioni − legate soprattutto a quel “popolo” invisibile che sono le bambine e i bambini − non ripercorre soltanto i quindici intensi anni di esperienza (dal 1913 al 1928, quando fu bruscamente interrotta dal regime fascista) e i conflitti interiori di una donna battagliera fino alla morte nell’ottobre del 1957; ma sembra, anche, portare a compimento la propria personale e coerente poetica di attenzione vibrante a storie annidate e spesso nascoste nella Storia, capace di fondere affreschi realistici e immaginazione, in narrazioni che catturano non solo emotivamente i lettori.

Lo testimoniano, con eleganza evocativa, anche i precedenti romanzi di Ossorio, in particolare «La mammana» (Einaudi 2014, perturbante storia di Lucina e della bimba Stella dal viso di alabastro) o «La cura dell’acqua salata» (Neri Pozza 2018, saga familiare picaresco-rocambolesca di tre generazioni ma anche romanzo di formazione simbolico-allegorico dove a spiccare sono il bambino Enzo, l’amata sorella-cugina adolescente Spina e la piccola sordomuta Dianella). E lo conferma, adesso, questa bella storia vera che rende vivi e attuali una figura femminile paradigmatica, un esperimento formativo e umano, il suo metodo pedagogico denominato “sistema Civita” e volto a rispettare e valorizzare ogni bambino nelle sue esigenze e inclinazioni, che tanto ancora ha da dire al presente.

Perché intingendo il suo pennello narrativo nelle molteplici sfumature cromatiche della tavolozza dei sentimenti (dall’amore fino alla crudeltà), Ossorio dipinge il quadro di un’epoca non troppo lontana da noi, e di una città ancora oggi attanagliata dalla povertà educativa: in cui, ad esempio, il piccolo sfortunato Felice, indimenticabile figurina di naufrago nelle tempeste di una vita deprivata, il “reverente” sacerdote Viggiano con la sua coraggiosa dedizione, i Caracciolini riscattati e capeggiati da Aubry e i suoi compagni, le maestre e il maestro della squadra dell’indomita Giulia Civita − figlia dello scultore ed ebanista Emilio Franceschi, madre di Emilio, amica di Raffaele Viviani, della moglie di Nitti, della figlia di Giolitti e di Jack La Bolina, alias Augusto Vittorio Vecchi, tutti personaggi presenti nel libro − affrontano, a schiena dritta, le sfide formative, i nodi della vita e i venti di guerra, accanto alle ostilità, violenze e crescenti soprusi anti-democratici e totalitari del regime fascista. Che volle, non a caso, appropriarsi di questo gioiello educativo inserendolo nell’Opera Nazionale Balilla. E − di fatto − annientandone così le peculiarità maieutiche. Ma non certo la memoria: che proprio grazie a questo romanzo torna così a rivivere, e palpitare, additando nuove rotte possibili nella navigazione della crescita e promozione umana contro i naufragi sempre in agguato.

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